Roba da Matti

Marcello Vicchio

Non sembri strano che spesso il cercatore di Luce ritorni alla poesia, perché questa è forse il veicolo  più potente  di trasmissione del Messaggio. Quando gli uomini hanno scelto di indagare il sovra-umano,  di narrare imprese  tali da annichilire le loro piccole forze,  di cantare le glorie celesti o la sapienza, spesso il linguaggio scelto è stato quello della poesia, il più simile alla “lingua degli uccelli”. 

L’impareggiabile libertà creatrice contenuta nella parola ( In principio era il verbo…), fa sì che tutto l’universo materiale e spirituale, e ogni attività o momento dello spirito umano, possano  rientrare nel dominio della poesia e in questa riverberino  quelle  immagini,   simboli,  allegorie capaci di impossessarsi della mente e del cuore di chi legge, ascolta e si ascolta, e condurlo laddove  la potenza dell’espressione desideri. 

La comprensione piena, poi, della vera opera d’arte è legata strettamente al grado di sintonia interiore, culturale e intellettuale, uguale nella trama ma sempre diversa nei contenuti, che si instaura nel momento in cui il prodotto del genio creativo investe l’animo  dello spettatore, con tutte le limitazioni sottintese. Limitazioni, sì, perché tra artista  e osservatore deve crearsi un processo di osmosi continua (sono loro due gli unici attori del personalissimo “dramma” che scaturisce dal confronto) e non sempre chi osserva è capace  di vedere.

Del resto dramma deriva dal greco  drama, che significa azione, partecipazione emotiva,  e se capita di essere indifferenti o distratti  alla voce della Natura e anche a quella delle Muse, le nostre vite saranno condannate a scorrere sui livelli elementari dell’essere, su piani paralleli rispetto alle Forme e senza mai intersecarsi con queste. Continueremo a dormire a occhi aperti, ciechi ai sottilissimi fili che  si snodano da altri gradi di  realtà e che i saggi, gli iniziati dell’antichità, qualche volta ci hanno indicato. Legati  agli alberi maestri delle nostre navi, sordi al richiamo delle sirene, mai riusciremo  ad afferrare altro che non sia il subito e l’adesso.

Accade” così che alcuni versi del Purgatorio dantesco, la cantica più squisitamente esoterica dell’opera perché simboleggia  l’anima che sta  ritrovando faticosamente la Luce dopo  il travaglio  infernale, improvvisamente lascino trasparire significati reconditi ma invisibili a uno sguardo superficiale, perfetti emblemi di quel ”parlar sottile” del quale Dante è inimitabile maestro.

Ingannato dal significato letterale di un paio di terzine, perché mai prima d’ora era scoccata in me l’alchemica  fusione artista-osservatore alla quale accennavo prima, per difetto non certamente dell’artista, non avevo notato quel quid  che costringe la mente a fare un altro piccolo passo nella comprensione dell’opera… e dell’Opera.

Tutto accade”, soleva ripetere un grande Maestro, senza  che siamo noi a scegliere. E ogni cosa accade quando deve accadere.

Vediamo  allora che cosa  succede  nel 3° canto del Purgatorio, tra i versi 33 e 39.

Dante e Virgilio sono ai piedi del monte del Purgatorio, stanno cioè iniziando la scalata che  porterà il Poeta, gradualmente, a raggiungere il Paradiso Terrestre (  la Gerusalemme Celeste).  Dante vede sul terreno, dinnanzi a sé, solo la sua  ombra e sussulta, temendo di essere stato abbandonato dal Maestro. Questi lo rimprovera e lo ammonisce a non essere diffidente, perché continuerà a essergli vicino. Il suo corpo è  seppellito a Napoli, sulla via per Pozzuoli, per questo non proietta ombre, ma la sua anima è con  lui, diafana e incorporea. Non è dato  sapere come “accade” che  le anime si incarnino nei corpi.

 Poi Virgilio s-vela:

Matto è chi spera che nostra ragione

possa trascorrer la infinita via,

che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti , umana gente al quia;

ché, se possuto aveste veder tutto,

mestier non era partorir Maria

 

Il significato letterale è evidente: è pazzo chi crede di poter giungere con la ragione a comprendere la Trinità e la consustanzialità, perciò è meglio che l’umanità  si accontenti della prova testimoniata dalla nascita del Figlio.

Spiegazione plausibilissima, canonica e quasi scontata.

Però…però c’era qualcosa.  Mi ricordavo di aver letto da qualche parte una definizione del  Matto che  mi aveva “instillato” molta curiosità e che, riportata alla terzina dantesca, apriva uno scenario del tutto nuovo.

La Via del Matto è la via  del viaggiatore solitario in cammino verso l’iniziazione. Questo viaggiatore  può anche studiare  sotto la guida di uno o più maestri, ma cercherà  in ogni maniera di conservare la propria identità… Dire che il Matto è sulla Via, equivale a dire  che percorre la strada dell’esperienza. Quella del Matto è la via dello sviluppo dell’ego. Nel linguaggio esoterico l’ego  è l’io; e questo io  è una gocciolina delle Mente universale di Dio… E’ quella goccia di divinità che  ha cercato l’esperienza  attraverso il coinvolgimento nella materia. Questa minuscola particella viene calata nella materia  affinché possa percepire se stessa, ossia acquisire esperienza nel regno della creazione divina…” (Hedsel-L’iniziato).

Il Matto, dunque, spogliato delle apparenze, è colui che  percorre la via dell’iniziazione!

Ed è colui che ha scelto la Via Umida, fatta di esperienze, di errori e rettificazioni continue.

L’altra , per grazia che da sì profonda

fontana stilla, che mai creatura

non pinse l’occhio infino a la prima onda”

(Par. XX, 118-120)

 

La figura del Matto ricorre in molte tradizioni ( nel Medio Evo  era molto diffusa la Festa dei Pazzi, in seguito proibita dalla Chiesa) e si ripresenta, di tanto in tanto, nella letteratura e nell’arte con significati molto spesso occulti, basti ricordare i quadri di Hieronymus Bosch o La nave dei folli di Sebastian Brandt. 

Sotto il cappello a tre punte ( a simboleggiare corpo, spirito e anima; il fisico, l’eterico, l’astrale; il passato, il presente, il futuro, insomma una trinità), il Matto dei Tarocchi cammina, lo sguardo rivolto in alto ( magari inciampando come Talete, che poi doveva subire i cachinni – come dice un mio amico - della servetta tracia… lo tuo riso sia sanza cachinni), portando un bastone e un fagotto sulla spalla, a rappresentare il fardello delle sue follie visionarie, e un altro bastone in mano, sul quale spesso inciampa. Certo, la rettitudine spesso lo fa inciampare, perché non si possono chiedere compromessi all’anima di un Matto.

La lince che gli addenta il polpaccio, simile alla lonza dantesca, animale dalla “gaietta pelle” chiazzata di Bianco e di Nero, non dà tregua al suo spirito inquieto, tormentandolo di continuo, sicché Oswald Wirth  può  legittimamente affermare : <<…Il saggio non si lascia ingannare dalle parole; invece di oggettivare  esteriormente  la negazione verbale dell’essere, cerca il Matto in se stesso, prendendo coscienza della ristretta personalità umana, che ha un posto tanto grande  nelle nostre misere preoccupazioni…>>.

Ben strano, dunque, questo Matto che, a ben vedere, dà l’impressione di essere più savio di molti altri.

<< Qualsiasi cosa dicano di me i mortali, >> scrive Erasmo da Rotterdam nell’ incipit dell’ Elogio della follia << …ecco qui la prova che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini>>.  E conclude << Ricordate però  il detto greco : ”spesso anche un pazzo parla a proposito”>>.

Se, dunque, il Matto è colui, e non altri, che percorre un proprio viatico iniziatico, egli spera davvero che la nostra ragione sia  in grado di indagare la infinita via del mistero della Trinità, che poi è anche il mistero del corpo, dello spirito e dell’anima umana.  Il suo cammino forse potrà rivelarsi alla fine infruttuoso, ma non sarà mai inutile perché l’importante è il viaggio in sé, con  fardello e bastone in spalla: il Matto mercenario di se stesso.

Abituati come siamo a dare alla ragione il freddo attributo della concatenazione di causa ed effetto, retaggio di una certa concezione  materialistica della realtà, spesso dimentichiamo di tornare alle origini e indagare sul  concetto originario del verbo reri, che ha il doppio significato di ‘credere e pensare’.

Il vero Matto spera, crede, pensa e, appunto per questo, non delega ad altri il suo fagotto. E non delega né il fare, né l’essere,  né il sentire, come Dante non ha affidato ad altri che a se stesso il travaglio della propria anima alla ricerca della Luce.

L’umana gente può accontentarsi del quia.

 

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