La Lingua dei Longobardi

di Marco Moretti

Il Mito

 

   

 

I Longobardi parlavano una lingua appartenente al gruppo delle lingue germaniche occidentali, proprio come il tedesco, che costituisce il suo parente più prossimo ancora in uso. Questo popolo, numericamente poco consistente ma splendente di gloria, è citato per la prima volta da Velleio Patercolo e quindi dal più famoso Tacito, che riportano i suo nome nella forma Langobardi, più corretta di quella da noi usata. La lingua che fu portata in Italia dal Re Alboino nell’anno 568 si spense alcuni secoli dopo, con ogni probabilità verso l’inizio del XI secolo. Sul finire dell’VIII secolo, lo storico Paolo Diacono scrisse un volume oltremondo interessante, intitolato Historia Langobardorum, ossia Storia dei Longobardi. In questo libro incompleto l’autore ha descritto le vicende dei suoi Padri da quando lasciarono la Scandinavia, loro terra d’origine, per attraversare diversi paesi dai nomi stravaganti situati lungo il corso dell’Elba: Scoringa e Mauringa, Golanda, Vurgundaib, Banthaib, e Anthab. Giunsero quindi al paese di Rugiland sul medio Danubio, e quindi dalla Pannonia all’Italia. Quando l’Historia Langobardorum vide la luce, il Regno dei Longobardi era ormai finito, sconfitto e assorbito nell’Impero di Carlo Magno, ma la sua eredità sarebbe durata ancora a lungo. Eppure tale lavoro non era del tutto originale, affondando le sue radici in un manoscritto più antico e di autore ignoto, chiamato Origo gentis Langobardorum. Così inizia quel breve testo, dando una spiegazione al nome dei Longobardi: 

 

Esiste un’isola nelle zone settentrionali chiamata Scadanan, che letteralmente significa “strage”, in cui vivono molte popolazioni. Tra queste c’era una piccola popolazione, che era chiamata Winnili. Tra loro vi era una donna chiamata Gambara ed aveva due figli; Ybor era il nome del primo e Aio quello del secondo. Essi erano i capi dei Winnili insieme alla madre di nome Gambara. Dunque i capi dei Vandali, ossia Ambri ed Assi, si misero in marcia con il loro esercito e dicevano ai Winnili: “O ci versate tributi o preparatevi alla guerra e combattete contro di noi”. Allora Ybor e Aio insieme alla madre Gambara risposero: “È meglio per noi prepararci a combattere piuttosto che versare tributi ai Vandali”. Quindi Ambri ed Assi, cioè i capi dei Vandali, pregarono Godan di concedere loro la vittoria sui Winnili. Godan rispose dicendo: “Concederò la vittoria ai primi che vedrò al sorgere del sole”. Allora Gambara ed i suoi due figli, Ybor ed Aio, che erano i capi dei Winnili invocarono Frea, moglie di Godan, affinché proteggesse i Winnili. Frea consigliò che essi si presentasseo al sorgere del sole, e che venissero insieme ai mariti anche le mogli con i capelli sciolti intorno al viso a mo’ di barba. Al primo albeggiare mentre il sole sorgeva, Frea girò il letto su cui dormiva il marito e lo rivolse ad Oriente, e poi lo svegliò. Egli, aperti gli occhi, vide i Winnili e le loro mogli con i capelli sciolti intorno al viso, e disse: “Chi sono queste lunghe barbe?”. Allora Frea rispose a Godan: “Così come hai loro imposto un nome, concedigli anche la vittoria”. Da quel momento i Winnili presero il nome di Longobardi.

 

Questo brano ci fornisce alcune informazioni sullo sviluppo della lingua dei Longobardi. Non soltanto afferma l’origine dell’etnonimo da LANG “lungo” e da BARD “barba” (riportato come bart da Paolo Diacono), ma ci dice qualcosa sull’evoluzione fonetica della lingua. Paolo Diacono, che riprende il testo aggiungendovi alcune note di scherno sulla leggenda pagana, a suo avviso intollerabile, afferma che Godan è quella divinità che tutti i Germani adorano come Wodan, e al cui nome i Longobardi avrebbero “aggiunto una lettera”. Questa aggiunta è molto significativa. Le parole germaniche adottate nel volgare romanzo che avrebbe poi dato origine alla lingua italiana e ai suoi dialetti, in genere mutano la consonante w- in gu-, cosìcché WERRA è diventato guerra, e via discorrendo. Si è sempre pensato che questo fosse un vezzo tipico dei parlanti neolatini nell’adattare un suono straniero. Ma la testimonianza della forma GODAN prova il contrario: a un certo punto, nella lingua dei Longobardi w- deve essere diventato gu- e davanti alle vocali -o- e -u- si deve essere semplificato in g-, perdendo il suo elemento labiale, analogamente a quanto è accaduto in gallese. Questa peculiarità colpiva la consonante in questione soltanto all’inizio di parola: all’interno di parole composte era scritta invece -u- o addirittura -o-: così nei nomi propri ALBUIN, FAROALD, etc. Nel tedesco odierno, l’antico w- suona ormai come il nostro v-. In dialetti di origine bavarese come quello dei Mocheni del Trentino e dei Cimbri del Veneto (da non confondersi con gli antichi Cimbri) si trova invece b-, che potrebbe essere derivato proprio da un esito di gu- simile a quello del longobardo, ma labializzato. Per completare questo breve studio dell’etnonimo, dobbiamo notare che nella tradizione scandinava, diversi secoli dopo gli scritti di Paolo Diacono, compare Langbarðr, ossia “Barbalunga”, proprio come epiteto di Odino. L’epiteto norreno è potetico e molto antico, essendo nel linguaggio comune il termine arcaico barðr sostituito da skegg.

 

Nell’anno 643 fu promulgato dal re Rotari un editto scritto in latino, ma contenente molte parole longobarde conservate intatte. Il fatto che Rotari abbia usato il latino per raccogliere in un corpus organico le leggi tradizionale della sua gente è stato ritenuto da diversi studiosi come la prova che la lingua degli avi aveva lasciato quasi interamente posto al latino. Ancora oggi questa interpretazione si trova di frequente, pur essendo errata. In realtà nessuno sembra aver notato che al tempo di Rotari nessuno parlava più il latino usato nell’Editto, che era utilizzato per redigere documenti legali unicamente per questioni di prestigio. Uno dei vocaboli più famosi e duraturi che ricorrono di frequente nel testo è FAIDA, che significa “vendetta”. Ve ne sono tuttavia di ancor più espressivi e truci. Ad esempio il termine PLODRAUB potrebbe essere tradotto con sciacallaggio o spogliazione del cadavere di un uomo assassinato. Il secondo elemento della parola, -RAUB, è corradicale del verbo RAUBON, che ha dato il nostro “rubare”. Il primo elemento, PLOD-, significa “sangue” (in tedesco attuale Blut). Con RAIRAUB si intendeva l’atto di depredare un sepolcro, mentre CRAPUORF indicava la profanazione in cui un cadavere era gettato fuori dalla tomba che lo custodiva: CRAP- è parente del tedesco Grabe, ossia “tomba”, mentre -UORF indica il concetto di “gettare”, in tedesco attuale werfen. Esisteva un termine altamente insultante, ARGA, che non doveva mai essere rivolto a un uomo. Se questa estrema offesa avveniva, l’Editto stabiliva nei diversi casi la pena: le alternative erano pagare dodici soldi di multa ritirando l’insulto e dichiarando di aver agito in preda all’ira, oppure persistere e affrontare il duello. Questa parola, che indica l’omosessuale passivo, era un insulto tanto aborrito da tutti i Germani antichi da dover essere lavato col sangue. La letteratura scandinava tra l’altro documenta ampiamente che quei popoli antichi attribuivano all’atto sodomitico il potere di ingravidare un uomo. Paolo Diacono ci racconta un episodio significativo, in cui il Duca Ferdulf provocò una grave sconfitta e il massacro del suo esercito, e questo solo perché litigò con il locale magistrato militare che si chiamava Argait, facendo allusione all’etimo del suo nome.

 

Sull’altare fatto costruire da Ratchis quando era Duca del Friuli, si trova un’iscrizione in cui compare l’enigmatica parola HIDEBOHOHRIT come epiteto del nobiluomo. Questo termine, noto anche nelle forme brevi HIDEBOHRIT e IBORIT, è tradotto come “resuscitato”, “risvegliato”. In genere questa traduzione viene interpretata in senso spirituale, e si pensa al fatto che a un certo punto Ratchis, che era divenuto Re, è stato deposto, ha preso i voti e ha trovato scampo in monastero. Questo però è avvenuto dopo la costruzione dell’altare. È possibile supporre che lo strano epiteto fosse inteso diversamente, designando il concetto di uomo che ritorna alla vita dopo essere stato colpito a morte in battaglia. In pratica, questa sarebbe la parola usata dai Longobardi per indicare un morto vivente, una specie di zombie. L’etimologia è sconosciuta e deve affondare le sue radici nel repertorio magico dei negromanti che incidevano le rune. Si noti che questa parola conserva suoni aspirati che nelle parole di uso comune non si pronunciavano più da tempo. Nella storia di Paolo Diacono il nome maschile ILDEOC dimostra questa precoce perdita dell’aspirazione: la sua origine è dalla radice germanica HILDI-, che significa “battaglia”. Allo stesso modo la radice germanica HARI-, che significa “esercito”, compare nei nomi propri come ARI-, ARE-, senza l’aspirazione. Così ARICHIS vale “Ostaggio dell’Esercito”, ARIPERT vale “Splendente dell’Esercito”, e via discorrendo. Dalla stessa base deriva anche la parola “arengario”, che indicava l’anello su cui l’esercito pronunciava i suoi giuramenti: era un composto con RING “anello”. L’antico HARIHRING doveva essere pronunciato ARERING e quindi ARRING, a cui la lingua della popolazione di origine romana ha aggiunto un tipico suffisso. 

 

Proprio nella lingua dei Longobardi si hanno le più antiche testimonianze della cosiddetta Seconda Rotazione delle consonanti. Questo cambiamento, tipico di quella parte del germanico occidentale che è conosciuta come Alto Tedesco, ha prodotto in molti contesti il passaggio dalle consonanti occlusive sorde ad affricate o fricative. Questo è il motivo per cui il tedesco ha Pfeffer “pepe”, was “che cosa”, Wasser “acqua”, Herz “cuore”, Koch “cuoco”, mentre l’inglese ha come corrispondenti di queste parole rispettivamente pepper, what, water, heart, cook. Un altro effetto della rotazione, che non si è manifestato in tutti i dialetti tedeschi, è la trasformazione della consonante occlusiva sonora b- nella sorda p- all’inizio delle radici. Questo si nota in molti nomi propri, formati con i seguenti elementi: PRAND “tizzone; spada” (tedesco Brand), PERG “montagna” (tedesco Berg), PERT “splendente” (tedesco Bercht). La glossa PACCA, che indica la carne salata, corrisponde all’inglese bacon. Esistevano però dialetti che conservavano b-. La trasformazione che ha portato in tedesco dall’occlusiva sonora d- alla sorda t- non si è invece verificato in longobardo, e così pure l’originale consonante th- non si è mutata in d- in principio di parola. Così THING indica l’assemblea degli Arimanni, e corrisponde al tedesco Ding “cosa”. I nomi formati con THEODE-, THEOD- “popolo”, tra cui THEODELINDA, corrispondono a nomi che in tedesco sono formati con Diet-. L’equivalente longobardo del nome gotico THIUDAREIKS “Teodorico”, è THEODERIS, che in tedesco si trova come Dietrich. Se la lingua dei Longobardi per molti versi somigliava all’antico alto tedesco, ossia al diretto antenato del tedesco moderno – e in particolare all’antico bavarese – va notato che alcune sue caratteristiche sono molto diverse. Così non si trova nelle sue parole alcuna traccia dell’Umlaut, la metafonesi che trasforma le vocali radicali e che costituisce uno dei tratti più tipici di tutti gli odierni dialetti tedeschi. Proprio per questo motivo, il longobardo ARI- “esercito” suona diversamente dal suo corrispondente tedesco Heer: ha una vocale -a- e non una -e-. Un’altra fondamentale differenza sta nella conservazione dei dittonghi ereditati -ai- e -au- anche dove l’altico alto tedesco li ha trasformati nelle vocali semplici -e- e -o- rispettivamente. Proprio la radice RAI-, REI- “tomba”, già vista nel lemma legale RAIRAUB, lo dimostra: il corrispondente nella lingua dei Goti è HRAIW, la cui grafia ci domostra che la forma più antica aveva un dittongo, anche se già ai tempi di Wulfila questa parola era pronunciata HREU con una -e- aperta e lunga. Il nome proprio maschile RAUFRID è formato da RAUD “rosso” (tedesco Rot) e da FRID “pace” (tedesco Friede).

 

Vi sono tuttavia parole che fanno eccezione alle regole fonetiche, perché sono in realtà state prese a prestito dalla lingua dei Goti, che era usata dai missionari della Chiesa Ariana. Così il longobardo GILD “pagamento” (pronunciato con la g- dura), ha una vocale -i- come in gotico, e diversamente dal tedesco Geld. Si confronti la forma longobarda ACTOGILD, equivalente a “otto volte il suo prezzo”, con la contemporanea analoga forma bavarese NIUNGELD “nove volte il suo prezzo”. Si noti che per contro Paolo Diacono glossa FELD come “campi aperti”, attestando in tale parola una fonetica tipicamente occidentale (tedesco Feld) - che non rimava con GILD - e infatti il termine era sconosciuto alla lingua dei Goti. Anche il nome del capostipite IBOR (scritto anche YBOR), che significa “cinghiale”, mostra una i-, mentre il germanico occidentale ha e- (tedesco Eber). Notevole è il termine EWA “legge eterna”, è anch’esso un prestito dalla lingua dei Goti, che ha monottongato gli originali dittonghi -ai- e -au- in vocali aperte -e- e -o- lunghe rispettivamente. Questi fatti ci dimostrano una fitta rete di influenze linguistiche non chiaramente ricostruibili, date le nostre conoscenze troppo frammentarie. Secondo alcuni studiosi, i Longobardi avrebbero parlato in origine una lingua del gruppo germanico orientale, che sarebbe stata poi sottoposta all’influenza della lingua dei Baiovari, da cui gli odierni Bavaresi. Il germanico orientale sarebbe quindi un sostrato. Sono incline a pensare che sia avvenuto l’esatto contrario: il germanico orientale ha agito come superstrato in due momenti diversi. La prima fase di questa influenza fu all’epoca della migrazione dalla Scandinavia, in cui i Winnili erano influenzati da genti più potenti e affini ai Goti: non dimentichiamo che poco ci mancò che finissero tributari dei Vandali. La seconda fase avvenne con l’inizio della conversione dal paganesimo tradizionale alla Chiesa Ariana, e la lingua portatrice di questa influenza è il gotico della traduzione biblica compiuta da Wulfila. Lo stesso dialetto bavarese contemporaneo conserva numerosi prestiti dalla lingua gotica, tra cui EIDE “madre” (gotico AITHEI), DULT “festa” (gotico DULTHS), OBSEN “portico” (gotico UBIZWA).

 

I fattori che determinarono l’indebolimento e l’estinzione finale della lingua dei Longobardi furono di natura demografica: la popolazione di origine germanica costituiva soltanto una piccola percentuale del totale. Eppure, nonostante questo, l’influenza che esercitò sulla stessa popolazione romanizzata fu grande e non deve essere sminuita. Infatti noi oggi non diciamo “bello” dal latino bellum, ma bensì “guerra”. La lista delle parole passate all’italiano è davvero consistente, e tali termini sono di uso generalizzato anche in zone come la Sicilia e la città di Roma, in cui non si videro mai Longobardi. Così la lingua del Longobardi per dire “acqua” ha WAZZA, WAZZO, donde italiano “guazza”, “guazzo” - parole ormai in disuso - e “sguazzare”, tuttora in uso (gotico WATO, tedesco Wasser). Questo è un esempio che mostra come spesso i termini italiani abbiano un significato meno generale di quelli di origine. Allo stesso modo il termine longobardo ZANNA significa “dente” (tedesco Zahn). Talvolta abbiamo a che fare con parole come ZACHAR “lacrima” - donde italiano “zacchera”, “inzaccherare” e STRUNZ “sterco” - donde “stronzo”, che sono documentate in antico alto tedesco, ma che non hanno lasciato eredi nel tedesco moderno. Alcuni termini in uso nel Medioevo e oggi desueti, sono ancor più notevoli. Così ARIGAIR “lancia dell’esercito”, ha dato l’italiano antico “alighiero”, da cui anche il cognome dell’immortale Dante.

 

In molti dialetti della Penisola vivono poi parole che non sono presenti nell’italiano standard. Il corredo nuziale della sposa è chiamato SCHERPA in Lombardia, e questo termine risale al longobardo SCHERPHA “suppellettili” (-ph- rende il suono che in tedesco moderno è scritto -pf-) Il padrino di battesimo è chiamato GUAZZ, dal longobardo GODAZZO, alla lettera “padre in Dio”: tutti riconosceranno l’inglese God e il tedesco Gott, mentre la seconda parte del composto corrisponde al gotico ATTA “padre”. Significativi relitti longobardi non si trovano soltanto a Settentrione, ma anche nel Meridione. Non dimentichiamoci che a Benevento le costumanze longobarde durarono fino all’arrivo dei Normanni e forse anche oltre. In quella corte i discendenti dei Winnili furono cristiani sono in apparenza, venerando in segreto l’effigie di una vipera e ornandosi di svastiche, sacre a Godan. Tombe longobarde a Benevento mostrano ancora in epoca tarda antroponimi non assimilati, come ad esempio ERF, che significa “Bruno”. “Fosco”. Anche in Puglia ci sono testimonianze notevoli. Non dimentichiamoci che i Trovatori della Provenza chiamavano Lombardi gli abitanti della Puglia. Così troviamo in documenti pugliesi voci come UFFU “femore” (tedesco Hüfte “anca”), SCHIZIA “sterco” (tedesco Scheisse) e MEFFIO “vitalizio di una vedova”, parola che si trova nell’Editto di Rotari come METFIO, da META “dono nuziale” (gotico MIZDO “ricompensa”, tedesco Miete “affitto”) e FIO “denaro” (gotico FAIHU “denaro”, tedesco Vieh “bestiame”).

 

A questo punto possiamo ben chiederci se non sarebbe il caso di recuperare questa ricca eredità, ricostruendo per intero la lingua e imparandola. Potrebbero nascere associazioni per usarla, e l’esperimento negli anni futuri forse sarebbe in grado di assumere una certa consistenza. Non dimentichiamoci che in Cornovaglia ha avuto grande successo il progetto di riportare in vita l’idioma celtico ancestrale, che si era estinto verso la fine del XVIII secolo. Allo stesso modo nei territori baltici della Prussia circa 200 persone parlano tuttora l’idoma degli antichi Borussi o Prussiani, di recente riportato in vita. In Egitto circa 300 persone parlano correntemente il Copto, discendente della lingua dei Faraoni, e altre persone di tale stirpe che hanno recuperato la lingua dei loro Padri vivono in America e in Australia. Perché quindi non potremmo dare nuova vita agli idiomi dei nostri Padri Longobardi e Goti? La letteratura avrebbe un immenso giovamento da questo recupero.

   


Articolo pubblicato nella rivista LexAurea44, si prega di contattare la redazione per ogni utilizzo.

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