Il silenzio come base per la conoscenza

di Pino Landi

  

LA PAROLA DEL SILENZIO

 

Un nudo silenzio impersonale è ora la mia mente,

Un mondo di visione chiara e inimitabile,

Un volume di silenzio firmato da una Divinità,

Una grandiosità scevra di pensiero, vergine di volontà.

Un giorno sulle sue pagine l'Ignoranza poteva scrivere

In uno sgorbio dell'intelletto la cieca congettura del Tempo

E lasciare pallidi messaggi di luce d'un sol giorno,

Cibo per anime che errano al margine della Natura.

Ma ora ascolto una parola più grande

Nata dal raggio muto, invisibile, onnisciente:

La Voce che solo l'orecchio del Silenzio ha udito

Balza emessa da una gloria eterna di Luce.

Da una vastità e da una pace intatta tutto passa

A tumulto di gioia in un mare di ampio riposo.

 

Sri Aurobindo da “Last poems”

 

 

 

La ricerca spirituale non può che essere empirica. Ovviamente questo termine ha altra valenza, rispetto all’ impostazione positivista o scientista: concezione ormai obsoleta, i cui limiti e manchevolezze sono state evidenziate e messe in crisi anche dalle nuove teorie e dalle più avanzate intuizioni ed elaborazioni della stessa fisica e matematica. Le medesime scienze moderne stanno riscoprendo, seppur in modo timido ed incerto, sapienze antichissime, contenute nei libri sacri dell’umanità e nell’insegnamento dei Grandi Maestri.

Il ricercatore spirituale è un empirico, nel senso che persegue una conoscenza sperimentabile, un modo di comprendere direttamente, per identificazione. Conoscenza spirituale è realizzazione, quindi sperimentazione: la conoscenza non è elaborazione mentale e teorica, non è un processo analitico, è crescita, acquisizione sintetica.

L’ empirismo spirituale presuppone una epistemologia opposta a quella del tradizionale metodo scientifico, “oggettivo” per definizione e fondamento. Il laboratorio in cui avviene l’esperimento non è “esterno” al soggetto che sperimenta: premessa e obiettivo dichiarato ed intrinseco a questo tipo di sperimentazione è una conoscenza integrale in cui soggetto sperimentante, oggetto della sperimentazione ed azione dello sperimentare sono una cosa unica inscindibile.

 L’uomo è risultanza di mille condizionamenti, esterni ed interni, coscienti e soprattutto provenienti da quella gran parte dell’uomo che sfugge alla sua coscienza. Risultanza di istinti, di pulsioni, dell’educazione familiare e scolastica, dell’esempio degli altri, di credenze, convinzioni, superstizioni più o meno palesi, e mille altri fattori.

Tutto ciò oltre a condizionare l’agire, il sentire ed il pensare dell’uomo, determina anche la sua conoscenza, cioè come considera la realtà e la risposta esplicita od inconfessata che si dà relativamente alle grandi domande esistenziali.

 Per una ricerca spirituale sincera e convincente occorre quindi liberarsi di ogni struttura comunque fabbricata e partire dal piano zero. Il sentiero che porta verso la vetta è disagevole e duro da percorrere: ogni fardello che si porta con sé sarà solamente un impedimento ed un ostacolo in più.

Per iniziare a crescere occorre prima morire alla condizione precedente e nascere ad una nuova, adatta alla crescita ed al progresso. Nella morte nulla si porta con sé ed alla nascita si è nudi: questo è prerequisito essenziale per essere effettivamente iniziati ad una avventura della coscienza verso piani superiori.

Le diverse impostazioni filosofiche, le convinzioni metafisiche, gli studi, la propria storia psichica sono solamente forme; l’essenza è la nudità che sta sotto queste vesti ed orpelli ed è questa nudità che occorre raggiungere per essere liberi; essere liberi è il primo atto da compiere per poter aspirare ad una conoscenza libera e superiore, per partecipare all’Essere e alla Verità.

 Il primo lavoro a cui dedicarsi è perciò quello di creare una condizione che tenda all’annullamento di ogni condizionamento e ci consenta di sperimentare una effettiva libertà di procedere, o fermarsi, e di individuare liberamente i successivi passi da compiere, garantendo che le scelte siano effettivamente tali e non coazioni indotte da dinamiche inconsce o esterne a noi.

Questa condizione preliminare è il silenzio mentale. A volte si è indotti a ritenere che la pratica spirituale, lo yoga, siano attività troppo complesse e al di fuori della nostra portata: nulla di più falso. Probabilmente queste convinzioni ci sono prodotte da quelle forze interiori che operano per impedire la nostra crescita. La possibilità di sperimentare una situazione di silenzio mentale è alla portata di chiunque, occorre solamente la volontà e l’aspirazione.

 Mettiamoci in un cantuccio tranquillo e silenzioso e cerchiamo di allontanare i pensieri che come nuvole scorrono incessanti nel limpido cielo della mente. I pensieri si affollano attorno a noi, ma restano solamente se diamo loro energia ed attenzione. Se li osserviamo arrivare e non li tratteniamo se ne vanno altrettanto velocemente di come sono arrivati. Occorre non contrastarli, né sfuggirli, altrimenti diamo loro forza, lasciamoli venire ed andare, senza trattenerli. Poco alla volta ci accorgiamo che i pensieri diminuiscono fino a scomparire del tutto. Magari non ci riusciamo la prima volta, magari il periodo senza pensieri è molto breve, ma continuando con questo tipo di pratica si riesce a realizzare una condizione di silenzio mentale.

Ciò che ho detto per i pensieri vale anche per le immagini, le immaginazioni e fantasie, per i sentimenti e le sensazioni. Il silenzio da instaurare è completo, silenzio della mente e del vitale, anche del corpo, in modo da non avvertire più pruriti e pungoli corporei vari. Quando si raggiunge questo punto forse è più esatto parlare di “quiete”.

Mi pare opportuno reiterare che le modalità e le indicazioni per la pratica sono sempre proposte formali, ciò che conta veramente è il contenuto vero con cui ciascuno riempie quelle matrici. Scuole diverse danno insegnamenti diversi rispetto alla pratica: respirazione, koan, immagini di simboli, canto ed emissione di suoni, ma ciò che conta veramente è l'inflessione di colui che queste pratiche compie. Tutto ciò vale anche per il silenzio, che va ricercato non per se medesimo, ma come essenza del suono. Ogni suono esiste perchè c'è dietro sempre e comunque il silenzio...ma anche questa è solo un'immagine che va vissuta e "provata". Nessuna descrizione può farci provare cosa accade nel bruciarsi un dito su una fiamma, o il sapore di un dolce frutto, tutto ciò vale anche per l’esperienza del silenzio e della quiete. Sono quindi l’inflessione e l’intenzione con cui ci si accinge a praticare che determinano il risultato della pratica stessa.

Durante ogni pratica, soprattutto se viene svolta con profitto, si attivano forze contrarie al progresso, resistenze al cambiamento. Nel caso del silenzio, abbiamo una strenua reazione della mente che dal vuoto si sente minacciata nelle proprie "competenze" e prerogative e quindi compie ogni subdola manovra per restare in primo piano indispensabile.

I dubbi, i giudizi negativi e spesso anche quelli positivi uniti a facili entusiasmi, sono alcuni degli strumenti che la mente attiva.

La mente è un meraviglioso strumento, così come il nostro corpo: non dobbiamo disprezzare né l’una né l’altro, così come occorre riconoscere la forza e l’energia di cui sono portatori gli istinti animali e vitali che ancora sono in noi. Occorre però che mente, vita, corpo, sentimenti siano al servizio della nostra libertà e non si impossessino della nostra entità e il viaggio della nostra vita sia da essi determinato. Se riesce a trasformare il proprio mondo interiore, eliminare l’asservimento all’ego, l’uomo può utilizzare tutto ciò di cui è dotato per realizzare appieno la propria “umanità”, senza pur tuttavia rimanerne prigioniero. La mente può portare a un certo tipo di conoscenza, non certamente da rifiutare o disprezzabile, ma è questa l’unica e più elevata conoscenza a cui l’uomo può giungere? C’è qualcosa oltre?

Per rispondere a questa domanda occorre imparare a rendere la mente un docile strumento, capace anche di tacere e mettersi momentaneamente da parte.

 Nella condizione di silenzio, di mente e vitale quieti, è possibile individuare un “centro di gravità permanente”. Come il centro di gravità terrestre ci consente di avere punto di riferimento certo per gli oggetti materiali e le dinamiche ad essi connesse, nel silenzio di mente ed affetti è possibile trovare un punto di riferimento per gli oggetti “sottili” del nostro pianeta interiore, che trascenda ogni preferenza, ogni punto di vista parziale e quindi permetta di attivare quella discriminazione indispensabile per comprenderne i movimenti.

Quel “centro” è oltre ogni coscienza individuale e separata, perché è identico in ogni uomo, in ogni entità, il contatto con questo “centro” consente il contatto, e quindi la conoscenza diretta, di ogni cosa grossolano o sottile…

Senza pregiudizi, instaurata la condizione di silenzio chiediamoci se c’è ancora la percezione di esserci, chi o cosa ha questa percezione, chi o cosa osserva i pensieri passare ecc…

Quel qualcosa che “osserva”, senza giudizi nè pregiudizi, quel “testimone silenzioso” è il centro di gravità permanente.

Continuando a praticare il silenzio sarà prima o poi possibile percepire quanto da quel centro irradia, cominciare a “sentire” quegli insegnamenti che possono far progredire, la voce di un “Maestro interiore” che è stato chiamato in mille diversi modi a seconda delle diverse scuole o insegnamenti spirituali, ma che sempre della medesima sostanza si tratta: quella scintilla Divina interiore, che involuta sotto cumuli di ombra e menzogna, è quel seme spirituale, da cui, debitamente coltivato ed irrorato, possono prodursi i fiori della conoscenza, luce, amore e verità.

La certezza del Maestro Intimo è l'unica speranza di possibilità di crescita spirituale. Non una certezza per fede, per credenza, ma una certezza sperimentata. Il primo passo necessario, è quello di cominciare a coltivare quel silenzio in cui solamente può ascoltarsi la voce al Maestro Intimo. Ascoltare il Maestro, saper discriminare da chi giungono le pulsioni, gli stimoli. Mettere il Maestro nella "cabina di guida". Sono obiettivi della nostra sadhana quotidiana a cui è possibile giungere. All'azione del Maestro intimo, corrisponde armonicamente l'aiuto della Madre. Quale arriva prima? Quale dà il via al viaggio spirituale ?

Le circostanze favorevoli e l'aiuto non mancheranno, ma l'azione e l'aspirazione personale non possono mancare...Il Divino ha per noi sempre un progetto di crescita e reintegrazione in Lui e nella Sua Coscienza, ma senza la nostra scelta e volontà non potrà mai realizzarsi.

E' certamente arduo esprimersi con l'usuale linguaggio e attraverso schemi mentali, quando si indaga sui "meccanismi" interiori attraverso i quali l'uomo procede sulla via della purificazione e dell'elevazione, quando si cerca di prendere coscienza e di descrivere i passaggi e le connessioni attraverso cui la Scintilla Divina si dilata e la Luce scende, fino all'agognata fusione.

Pure è necessario trattare anche di questa sorta di  "psicologia esoterica" e cercare la forma più consona ad una raffigurazione comprensibile.

Dice al proposito Sri Aurobindo:

L’essere psichico, nocciolo di Anima, ricoperto dalle esperienze delle vite percorse; non sempre si identifica tout-court con il Maestro interiore: chi ci dà le intuizioni di cosa essere e cosa fare, oppure ci mette in guardia verso le conseguenze di certe azioni? è sempre una qualche parte dell’essere interiore, a prevalenza mentale, oppure vitale; forse il purusha interiore o fisico sottile.

L’essere interiore ( mente, vitale , fisico interiore o fisico sottile ) può insegnare alla mente esteriore, educare il vitale esteriore, purificare il fisico esteriore, poiché è più in diretto contatto con le forze segrete della natura; lo psichico [spirituale ] che è l’essere più interno di tutti è in possesso di una percezione della verità che è inerente la più profonda sostanza della coscienza.”

Inoltre Maggi e Surakshita nell’ Introduzione al libro: “L’essere psichico”:

La via dello yoga può sembrare complessa e infatti può succedere di ritrovarsi perplessi davanti a tante possibilità di scelta tra tanti cammini, tanti modi, tante tecniche: Lo yoga è vasto come la vita stessa, e infatti Aurobindo dice che tutta la vita è yoga. E la vita com’è vista e vissuta nella coscienza ordinaria, a volte non è altro che un susseguirsi di momenti pericolosi (il pericolo dello sconosciuto) su sentieri che non si sa esattamente dove portano e sui quali non si sa perché ci si trova. Infatti per chi si accosta allo yoga o alla vita illudendosi che sia un modo per acquisire poteri, ma anche visioni od esperienze, o per contattare altri piani o mondi, lo yoga e la vita possono portare in luoghi bui, presentare sorprese e difficoltà inaspettate.

C’è soltanto una cosa sicura, che non inganna mai e che non delude mai, che è la sorgente della vera gioia e della pace duratura…Non c’è niente che possa portare tanta felicità e tanta pace come l’emergere dell’Essere Psichico da dietro il velo.

Tutto in realtà è già segretamente guidato dall’Essere Psichico, che sempre più esce dall’ignoto si rivela la guida della vita.

Infatti lo yoga dell’Essere Psichico è uno yoga aperto a tutti….Per captare l’idea o l’espressione dello Psichico basta guardare negli occhi di un bambino assorto di fronte alla meraviglia delle foglie di un albero che, mosse dal vento, giocano con le ombre del bosco e con la luce del sole.

Normalmente non si ha coscienza dell’Essere Psichico, però è l’unica parte di noi che, intoccata dagli avvenimenti, non è soggetta ad alcun degrado.

.quando l’Essere Psichico comincia a svegliarsi attira, in una sorta di armonia segreta, le persone, i fatti, il libro da leggere e tutto il resto che ti può aiutare e metterti sul cammino. Il cammino di tutti noi nella vita di tutti i giorni, ma anche il cammino dell’umanità intera verso il prossimo passo evolutivo. Perché è l’Essere Psichico stessi che, maturando di vita in vita, alla fine si materializzerà nella sostanza del prossimo corpo Supermentale, il prossimo mondo di armonia, come Mère ci dice nella sua Agenda.”

 Non deve essere il lavoro interiore ad adeguarsi alle dinamiche, ai ritmi ed alla logica del lavoro esteriore, bensì l’esatto contrario. Si inizia con un lavoro interiore, svolto per una piccola parte della giornata, ma se il lavoro è proficuo, pian piano diventa la modalità di vita. Dice il Maestro “tutta la vita è yoga”: se dobbiamo diventare entità integrali, uomini non scissi, occorre superare la concezione di lavoro esterno e lavoro interiore, ma ogni istante della giornata è momento di lavoro, senza aggettivi. Le realizzazioni piccole e grandi che possiamo raggiungere lungo il cammino, le trasformazioni ottenute  col lavoro intimo nel nostro universo “interno” e nella qualità della nostra coscienza, hanno dirette ripercussioni ed effetti anche nel mondo “esterno” ordinario dei fenomeni. Sarebbe meglio dire che la trasformazione avviene in un mondo unico che non è né interno né esterno, ma che come tale viene percepito dalla falsa coscienza di separazione

Il problema è quello di stabilizzare quelle piccole realizzazioni, i risultati del lavoro intimo e della meditazione, che si possono provare per pochi istanti o comunque solamente durante certe pratiche particolarmente efficaci.

Se avete provato, anche solamente per un tempo brevissimo, un momento di puro silenzio e di profonda quiete, su quello occorre lavorare, per renderlo più stabile nella coscienza
Personalmente uso un "trucco" utilizzando un meccanismo umano molto semplice quanto efficace: il ricordo e l'immaginazione. Quando si presenta, cerco di trattenere per quanto possibile l'esperienza, o almeno la "traduzione" dell'esperienza nei termini comprensibili al mio basso livello: la sensazione, la "visione" mentale, l'insieme di sentimenti che l'accompagnano ( gioia, soddisfazione, ecc...). Posso in ogni momento, instaurata una situazione di silenzio e quiete provare a richiamare quella "traduzione" attraverso l'immaginazione, quindi il ricordo.
Non sempre, ma in qualche caso ritorna decisa l'esperienza...

Le forze contrarie al progresso sono sempre pronte a fare il proprio lavoro: spesso accade che qualche sprazzo di luce e gioia ci facciano apparire talmente insopportabile tornare alla normale condizione quotidiana di coscienza, che istintivamente rinunciamo a quegli sprazzi per non soffrirne la mancanza. Ovviamente è un atteggiamento inconscio estremamente negativo su cui occorre lavorare. E’ come sempre un lavoro di integrazione, cioè di evitare oppure ricomporre qualunque frattura e portare ogni antinomia ad una sintesi superiore…

Quando si è sperimentata e consolidata la dimensione di silenzio durante la meditazione, nel silenzio materiale e nella quiete del proprio angolino, occorre abituarsi ad indurre il silenzio mentale, in ogni momento della vita quotidiana. Si può quindi essere nel silenzio anche quando si chiacchiera con gli amici, quando si interviene in lista ecc…Così, analogamente si può essere nel consueto vocio mentale, indotto in modo del tutto coattivo ed inconscio, anche se si tace per un intero mese.

Il silenzio è una dimensione coscienziale, è la scelta di libertà equanime, oltre le preferenze egoiche, potendo rifiutare i pensieri indotti dall’esterno e dall’interno. Questa dimensione è tanto più efficace quanto più è indipendente dagli atteggiamenti e dalle attività esteriori…

Un’ultima annotazione su un ulteriore pericolo, quello che, a seguito di qualche buona esperienza in merito al silenzio, si instauri una sorta di ego mascherato da “virtuoso meditante”. Subentra allora l’attaccamento alla meditazione, alla pratica, al silenzio e questa diventa fine a sé stessa

La meditazione non è un lavoro di accumulo: ogni istante ha valore per sé medesimo, ogni esperienza è unica irripetibile e prescinde da tutto ciò che si è fatto prima. Occorre non avere sentimenti di soddisfazione ed attaccamento, perché la soddisfazione ha i germi della sofferenza, la medesima sostanza. Entrambi sono generati dal movimento degli ego e pertanto entrambi vanno evitati.

Tutti hanno tecniche. Non si può prescindere da una codifica, immersi nella mutevole quotidianità fenomenica. In fondo anche rifiutare ogni tecnica è una tecnica.

La cosa essenziale è non innamorarsi della tecnica e avere sempre coscienza che è il mezzo e mai il fine.

A proposito poi del fine vorrei condividere le parole che Sri Aurobindo rivolgeva ai propri discepoli nelle “lettere sullo yoga”:

Non c’è niente per cui agitarvi. Dovete piuttosto congratularvi di essere divenuto consapevole del vostro egocentrismo. Pochissimi all’Ashram lo sono. Sono tutti egocentrici e non si rendono conto del loro egocentrismo. Anche nella loro sadhana è sempre presente l’io: la mia sadhana, il mio progresso, il mio questo, il mio quello. Il rimedio è pensare costantemente al Divino e non a sé stessi, lavorare, agire e fare sadhana per il Divino, e non considerare in che modo questo o quello mi tocca personalmente, non reclamare niente, ma affidare tutto al Divino.Ci vorrà del tempo per farlo sinceramente e fino in fondo, ma quello è il modo giusto”

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