Antonio D'Alonzo

Alchimia

 

Per Carl Gustav Jung, uno dei suoi più celebri studiosi, l’Alchimia è una sorta di antica «tecnica dell’anima», in grado di realizzare il Sé, il principium individuationis che integra l’Io nell’Inconscio Collettivo. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui si ottiene la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggiano, ritualmente, il processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista- per Jung- non è altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo: anche quando egli opera empiricamente, riproduce- consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé.  La tradizione alchemica ha cercato di elaborare un diverso modo di relazionarsi con il Mondo Sensibile. L’alchimista «mette a morte» la realtà esistente per ottenere un nuovo stato incorruttibile ed immortale, in grado di sfuggire alla caducità del mondo contingente. L’Arte Regia si è sviluppata in variegati contesti storici e culturali; in ogni caso, il filo rosso, in grado di ricollegare tutte le diverse scuole e correnti, deve essere collocato nella ricerca di un oggetto- riconducibile ad una pietra, ad una tintura, a dell’acqua o ad un elixir- dotato di miracolosi poteri. Quest’oggetto, desideratum degli alchimisti di tutte le epoche, non sarebbe dovuto servire soltanto a fabbricare l’oro dal vile metallo, ma anche ad assicurare l’immortalità, o quanto meno a prolungare indefinitamente l’esistenza: motivo che richiama la saga di Gilgamesh ed anche il vello d’oro degli Argonauti.  Del resto, in tutte le tradizioni alchemiche, in particolare in quella cinese, determinate piante e frutti sono in grado di prolungare la vita, procurando all’adepto una perenne giovinezza.  Dal canto loro, più che alla protolongevità, gli alchimisti occidentali sono sempre stati maggiormente interessati alla trasmutazione dei metalli in oro, attraverso il possesso del Lapis Philosophorum, la Pietra Filosofale.  È molto probabile che anche il Lapis Philosophorum non fosse altro che una trasposizione allegorica della trasformazione interiore realizzata dall’adepto: tuttavia esso era anche qualcosa di più di una metafora. Esso costituiva l’oggetto di un’accanita ricerca sperimentale condotta all’interno dei laboratori alchemici. La sua realizzazione era assicurata dal conseguimento di quello stadio finale, indicato dagli alchimisti come fase «rossa» o Rubedo, preceduto in ordine decrescente da una fase «bianca» Albedo e da una fase «nera» o Nigredo. Quest’ultima deve essere intesa come una sorta di «morte profana» o «discesa agli inferi», nel «ventre di un mostro marino». La fase «bianca», invece, segna il momento della rigenerazione mistica, della rinascita iniziatica. L’ultimo stadio, la fase «rossa» è destinata a pochi e indica la realizzazione dell’Opus, dell’Opera. La trasmutazione, infatti, per gli alchimisti doveva avvenire gradualmente attraverso tre passaggi, simboleggiati dai tre colori sopra indicati. È evidente come questi tre passaggi richiamino il significato dell’Iniziazione Massonica e come la ricerca della Pietra Filosofale debba essere intesa come ricerca di perfezione spirituale e iniziatica.

 

 

   

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