|
Discorso di Benedetto XVI all'Università di Ratisbona. Testo integrale. 12 settembre 2006.
|
|
Fede, ragione e università.
Ricordi e riflessioni.
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra
dell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei pensieri,
contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un bel periodo presso
l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia attività di insegnante
accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959 – ancora il tempo della
vecchia università dei professori ordinari. Per le singole cattedre non
esistevano né assistenti né dattilografi, ma in compenso c'era un contatto molto
diretto con gli studenti e soprattutto anche tra i professori. Ci si incontrava
prima e dopo la lezione nelle stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i
filosofi, i filologi e naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano
molto stretti. Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus,
in cui professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti
dell'intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di
universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte
ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel
tutto dell'unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche
nella comune responsabilità per il retto uso della ragione – questo fatto
diventava esperienza viva. L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue
due facoltà teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla
ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa parte del
"tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti potevano condividere la
fede, per la cui correlazione con la ragione comune si impegnano i teologi.
Questa coesione interiore nel cosmo della ragione non venne disturbata neanche
quando una volta trapelò la notizia che uno dei colleghi aveva detto che nella
nostra università c'era una stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa
che non esisteva – di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale
resti necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e ciò
debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede cristiana: questo,
nell'insieme dell'università, era una convinzione indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita dal
professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto imperatore
bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri d'inverno del 1391
presso Ankara, ebbe con un persiano colto su cristianesimo e islam e sulla
verità di ambedue. Fu poi probabilmente l'imperatore stesso ad annotare, durante
l'assedio di Costantinopoli tra il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega
così perché i suoi ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato
che non le risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto
l'ambito delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si
sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma necessariamente anche
sempre di nuovo sulla relazione tra le "tre Leggi": Antico Testamento – Nuovo
Testamento – Corano. Vorrei toccare in questa lezione solo un argomento –
piuttosto marginale nella struttura del dialogo – che, nel contesto del tema
"fede e ragione", mi ha affascinato e che mi servirà come punto di partenza per
le mie riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury,
l'imperatore tocca il tema della jihad (guerra santa). Sicuramente l'imperatore
sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione nelle cose di fede".
È una delle sure del periodo iniziale in cui Maometto stesso era ancora senza
potere e minacciato. Ma, naturalmente, l'imperatore conosceva anche le
disposizioni, sviluppate successivamente e fissate nel Corano, circa la guerra
santa. Senza soffermarsi sui particolari, come la differenza di trattamento tra
coloro che possiedono il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo
sorprendentemente brusco, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la
domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo:
"Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto
delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo
della spada la fede che egli predicava". L'imperatore spiega poi minuziosamente
le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la violenza è cosa
irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura di Dio e la natura
dell'anima. "Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione (συ`ν
λόγω) è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell'anima, non del
corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di
parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della
minaccia… Per convincere un'anima ragionevole non è necessario disporre né del
proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo con cui
si possa minacciare una persona di morte…".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione mediante
la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio.
L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore, come bizantino cresciuto
nella filosofia greca, quest'affermazione è evidente. Per la dottrina musulmana,
invece, Dio è assolutamente trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna
delle nostre categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo
contesto Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale
rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato
neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi
la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe praticare anche l'idolatria.
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione concreta
della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto diretto. La
convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di
Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in
questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso
migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il
primo versetto del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo
Vangelo con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa
parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa insieme
ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma,
appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul
concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e
tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi.
In principio era il logos, e il logos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro
tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La
visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che,
in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e
aiutaci!" (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una
"condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede
biblica e l'interrogarsi greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già il nome
misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio dall'insieme delle
divinità con molteplici nomi affermando soltanto il suo essere, è, nei confronti
del mito, una contestazione con la quale sta in intima analogia il tentativo di
Socrate di vincere e superare il mito stesso. Il processo iniziato presso il
roveto raggiunge, all'interno dell'Antico Testamento, una nuova maturità durante
l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si annuncia
come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una semplice formula che
prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con questa nuova conoscenza di Dio va
di pari passo una specie di illuminismo, che si esprime in modo drastico nella
derisione delle divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal
115). Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani
ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamento allo stile di vita
greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante l'epoca ellenistica,
andava interiormente incontro alla parte migliore del pensiero greco, fino ad un
contatto vicendevole che si è poi realizzato specialmente nella tarda
letteratura sapienziale. Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell'Antico
Testamento, realizzata in Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice
(da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è
infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo
della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un
modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un
significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell'incontro tra fede e
ragione, tra autentico illuminismo e religione. Partendo veramente dall'intima
natura della fede cristiana e, al contempo, dalla natura del pensiero
ellenistico fuso ormai con la fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il
logos" è contrario alla natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si sono
sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra spirito greco
e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano
e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica, la quale alla
fine portò all'affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas
ordinata. Al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale
Egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che
effettivamente ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro,
possono avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagine
di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La
trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così esagerato,
che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del bene non sono più un
vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali rimangono per noi eternamente
irraggiungibili e nascoste dietro le sue decisioni effettive. In contrasto con
ciò, la fede della Chiesa si è sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e
noi, tra il suo eterno Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una
vera analogia, in cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi
delle somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo
linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo
spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il Dio
veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e
agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore "sorpassa" la conoscenza
ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr Ef 3,19),
tuttavia esso rimane l'amore del Dio-logos, per cui il culto cristiano è λογικη`
λατρεία – un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr
Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede
biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di
importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma
anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi.
Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante
la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine
trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo
anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora
il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento di ciò che, con
ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte
integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della dis-ellenizzazione
del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in
modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare
tre onde nel programma della dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse
tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte
l'una dall'altra.
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati
fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione delle
scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una sistematizzazione
della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di fronte cioè ad una
determinazione della fede dall'esterno in forza di un modo di pensare che non
derivava da essa. Così la fede non appariva più come vivente parola storica, ma
come elemento inserito nella struttura di un sistema filosofico. Il sola
Scriptura invece cerca la pura forma primordiale della fede, come essa è
presente originariamente nella Parola biblica. La metafisica appare come un
presupposto derivante da altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla
tornare ad essere totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto
accantonare il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo
programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò egli ha
ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole l'accesso al
tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel
programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von
Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi anni della mia attività
accademica, questo programma era fortemente operante anche nella teologia
cattolica. Come punto di partenza era utilizzata la distinzione di Pascal tra il
Dio dei filosofi ed il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a
Bonn, nel 1959, ho cercato di affrontare questo argomento. Non intendo
riprendere qui tutto il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno
brevemente la novità che caratterizzava questa seconda onda di
dis-ellenizzazione rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in
Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che
verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero
culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un addio al
culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene rappresentato come padre
di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di ciò è in fondo di riportare il
cristianesimo in armonia con la ragione moderna, liberandolo, appunto, da
elementi apparentemente filosofici e teologici, come per esempio la fede nella
divinità di Cristo e nella trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi
storico-critica del Nuovo Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo
dell'università: teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e
quindi di strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la
critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di conseguenza
anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel sottofondo c'è l'autolimitazione
moderna della ragione, espressa in modo classico nelle "critiche" di Kant, nel
frattempo però ulteriormente radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali.
Questo concetto moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una
sintesi tra platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha
confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della materia, la
sua per così dire razionalità intrinseca, che rende possibile comprenderla ed
usarla nella sua efficacia operativa: questo presupposto di fondo è, per così
dire, l'elemento platonico nel concetto moderno della natura. Dall'altra parte,
si tratta della utilizzabilità funzionale della natura per i nostri scopi, dove
solo la possibilità di controllare verità o falsità mediante l'esperimento
fornisce la certezza decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle
circostanze, stare più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così
strettamente positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o
cartesiano.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra questione.
Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di matematica ed empiria
ci permette di parlare di scientificità. Ciò che pretende di essere scienza deve
confrontarsi con questo criterio. E così anche le scienze che riguardano le cose
umane, come la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di
avvicinarsi a questo canone della scientificità. Importante per le nostre
riflessioni, comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il
problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico.
Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e
ragione che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener presente che,
in un tentativo alla luce di questa prospettiva di conservare alla teologia il
carattere di disciplina "scientifica", del cristianesimo resterebbe solo un
misero frammento. Ma dobbiamo dire di più: è l'uomo stesso che con ciò subisce
una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli
del "da dove" e del "verso dove", gli interrogativi della religione e
dell'ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione
descritta dalla "scienza" e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo.
Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare
religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in definitiva
l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la religione perdono la
loro forza di creare una comunità e scadono nell'ambito della discrezionalità
personale. È questa una condizione pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle
patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che
necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto
che le questioni della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che
rimane dei tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione
o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo ragionamento,
devo accennare ancora brevemente alla terza onda della dis-ellenizzazione che si
diffonde attualmente. In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle
culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa
antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le
altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al
punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del
Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti.
Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa.
Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se
stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello
sviluppo precedente dell’Antico Testamento. Certamente ci sono elementi nel
processo formativo della Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte
le culture. Ma le decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della
fede con la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte
della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi linee, di
critica della ragione moderna dal suo interno, non include assolutamente
l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima dell’illuminismo,
rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che nello sviluppo moderno
dello spirito è valido viene riconosciuto senza riserve: tutti siamo grati per
le grandiose possibilità che esso ha aperto all’uomo e per i progressi nel campo
umano che ci sono stati donati. L’ethos della scientificità, del resto, è
volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che
fa parte della decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non
critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del
nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di
fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che emergono da
queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo
solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la
limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile
nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. In
questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e
umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo
sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell'università e nel vasto
dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e delle
religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel mondo
occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione positivista e
le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture
profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino
dall'universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una
ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell'ambito
delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. E
tuttavia, la moderna ragione propria delle scienze naturali, con l'intrinseco
suo elemento platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un
interrogativo che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa
stessa deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la
corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella
natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso metodico. Ma la
domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve essere affidata dalle
scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare – alla filosofia e alla
teologia. Per la filosofia e, in modo diverso, per la teologia, l'ascoltare le
grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell'umanità,
specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza;
rifiutarsi ad essa significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro
ascoltare e rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone.
Nei colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche sbagliate, e
allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a motivo
dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua vita prendesse
in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in questo modo perderebbe
la verità dell'essere e subirebbe un grande danno". L'occidente, da molto tempo,
è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della
sua ragione, e così può subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi
all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il
programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica,
entra nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione (con il
logos) è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo dalla sua
immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a questo grande logos,
a questa vastità della ragione, che invitiamo nel dialogo delle culture i nostri
interlocutori. Ritrovarla noi stessi sempre di nuovo, è il grande compito
dell'università.