PARVULA MAGNA

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Ippolito di Roma


 

LA GNOSI PITAGORICA

DI VALENTINO E MARCO

dal VI Libro dei Philosophumèna


 

prima traduzione italiana condotta su quella francese di A. Siouville

(Paris, Rieder 1928)


 


 


 


 

Sotto ogni capitolo, in corsivo, si sono messe alcune notazioni del traduttore francese. Il testo originale greco è in più parti corrotto il che ha nuociuto alla traduzione


 


 


 


 


 

VALENTINO


 


 

21. L’eresia di Valentino poggia sulle dottrine di Pitagora e Platone. Quest’ultimo, infatti, nel Timeo ha interamente seguito Pitagora; del resto lo stesso Timeo è per Platone un invitato appartenente ai Pitagorici. Pertanto ci sembra giusto riferire in anticipo alcuni tratti salienti delle dottrine pitagoriche e platoniche prima di trattare del sistema di Valentino. Sebbene in precedenza [Philosophumèna I, 2 e 14; IV, 7] ci siamo già presi la pena di esporre le opinioni di Pitagora e Platone, non sarà qui inutile riassumere in sintesi i punti principali delle loro dottrine. Potremo così, avvicinandoci maggiormente a quei diversi sistemi e confrontandoli tra loro, studiare meglio il pensiero di Valentino. Così come Pitagora e Platone ricevettero dagli Egiziani le dottrine che essi portarono tra i Greci, così Valentino le ha ricevute da questi due filosofi; ma, più mendace di quelli stessi, egli ha cercato, grazie ad esse, di costruirsi un sistema tutto suo. Egli ha alterato quei sistemi tramite cambiamenti di parole e numeri; con l’introduzione di termini e concetti di sua scelta ha quindi composto un’eresia ellenica, di certo ingegnosa, ma poco solida ed estranea a Cristo.


 

Che Valentino, come quasi tutti gli uomini dotti di quell’epoca, fosse più o meno imbevuto di dottrine platoniche, è un fatto certo: Tertulliano lo chiama Valentino il platonico. Che abbia poi subito in parte l’influsso del Pitagorismo, è anche possibile. Ma che, di proposito, abbia attinto al sistema di Pitagora per ricavarne con un semplice cambiamento di parole e numeri, una specie di filosofia cristiana, è una tesi insostenibile. Nella sua opera si può trovare al massimo qualche vaga reminiscenza pitagorica. Ma Ippolito vuole ad ogni costo scoprire per il sistema di Valentino, così come per tutte le altre eresie, un’origine filosofica e pagana e crede di riuscirci adducendo qualche rassomiglianza vaga e casuale. In realtà, non è Valentino che ha scelto Pitagora come sponsor della sua dottrina, ma Ippolito che, per necessità di parte, gli ha imposto artificialmente questo patrocinio.


 

22. Base di partenza di questi sistemi è la dottrina degli Egiziani, che ritroviamo nel Timeo di Platone. Fu infatti dall’Egitto che Solone ha tratto tutte le dottrine concernenti l’origine e la distruzione del mondo insegnandole con un linguaggio aulico e ispirato, come dice Platone [Timeo, III], ai Greci che erano ancora dei fanciulli privi di qualsiasi dottrina teologica antica. Affinchè si possa meglio seguire l’insegnamento di Valentino, voglio dapprima esporre i principi filosofici che Pitagora di Samo sviluppò mediante quel famoso silenzio tanto decantato dai Greci. Sono insegnamenti che Valentino ha tratti tali e quali da Pitagora e Platone per riferirli, con termini enfatici, a Cristo e, prima di Lui, al Padre di Tutto e a Silenzio, compagna del Padre.


 

Nelle sigizie [coppie] gnostiche il genere del termine tradotto non corrisponde sempre a quello del termine greco. Così, in questo caso, Silenzio, in origine è femminile.


 

23. Pitagora insegna che l’Universo ha due principii: uno, ingenerato, è la monade, l’altro, generato, è la diade e tutti gli altri numeri. Secondo lui, la monade è il padre della diade mentre quest’ultima è la madre di tutti gli esseri generati, madre generata degli esseri generati. Il maestro di Pitagora, Zaratas, chiamava anche lui padre il numero uno e madre il numero due. Come dice Pitagora è la monade che ha generato la diade; la monade è maschile e viene per prima mentre la diade è femminile e viene per seconda. Secondo Pitagora, la diade, a sua volta, genera il numero Tre e quelli seguenti fino al Dieci. Solo quest’ultimo viene riconosciuto da Pitagora quale numero perfetto; i numeri Undici e Dodici non essendo altro che un’addizione dei precedenti alla decade. Questi dieci non devono la propria nascita a nessun altro numero. Ciò che si aggiunge genera, da elementi incorporei, tutti i corpi solidi. Secondo Pitagora il punto appartiene sia agli esseri corporei che a quelli incorporei, e questo punto, che è indivisibile, è il loro principio. Il punto genera la linea e la superficie ed estendendosi in profondità, diventa un corpo solido. E’ anche per questo che l’accordo dei quattro elementi è per i Pitagortici un giuramento; essi giurano a questo modo: « per colui che ha trasmesso alla nostra mente il quaternario, fonte che scaturisce dalla natura inesauribile » [Versi d’Oro, 47]. Il quaternario è il principio dei corpi fisici e solidi, come la monade lo è degli esseri spirituali. E che lo stesso quaternario, come la monade nell’ordine spirituale, generi il numero perfetto, il dieci, è ciò che i Pitagorici insegnano così: se ci si mette a contare e si numera uno, poi due e tre, si ha sei; se si aggiunge quattro, il totale è dieci; perché uno, due, tre e quattro, addizionati insieme, fanno dieci, numero perfetto. Così, dice Pitagora, il quaternario ha imitato in tutto la monade spirituale che ha potuto generare un numero perfetto.


 

Non bisogna confondere Tetraktys e Tetrade: quest’ultima è semplicemente il numero quattro; tetraktys è il numero dieci, numero quaternario, cosiddetto perché formato dalla somma dei primi quattro numeri (1+2+3+4 = 10).


 

24. Ci sono dunque, secondo Pitagora, due mondi: il mondo intelligibile, che ha per principio la monade, e il mondo sensibile. Quest’ultimo è il quaternario, rappresentato da un semplice tratto, la lettera iota, numero perfetto. Secondo i Pitagorici, lo iota, questo semplice piccolo trattino, è il primo e il principale degli elementi; è la sostanza degli esseri intelligibili, percepito dall’intelligenza e dai sensi [spirituali]. Da questa sostanza dipendono nove specie di entità incorporee che non possono esistere separate dalla sostanza stessa: qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, situazione, possesso, azione e passione. Gli accidenti della sostanza sono dunque in numero di nove; aggiungendovisi, la sostanza forma il numero dieci, numero perfetto. Il Tutto è dunque diviso, come abbiamo detto, in mondo intelligibile e mondo sensibile. Dal mondo intelligibile ci viene la ragione affinchè, per suo mezzo, si possa essere iniziati alla conoscenza intima dell’essenza degli esseri intelligibili, incorporei e divini. D’altra parte, dice Pitagora, noi abbiamo cinque sensi: odorato, vista, udito, gusto e tatto, grazie ai quali possiamo conoscere le cose sensibili. E così, dice, il mondo sensibile è separato dal mondo intelligibile. Noi siamo dotati di uno speciale organo che ci permette di conoscere entrambi questi mondi, come ci dimostra la seguente osservazione. Tramite i sensi, dice Pitagora, noi non siamo in grado di conoscere alcun essere intelligibile: poiché, quegli esseri, né l’occhio li ha visti né l’orecchio li ha intesi, né alcun altro senso, qualsivoglia, dice, li ha mai conosciuti. Del resto, è impossibile arrivare con la ragione alla conoscenza di una cosa sensibile e solo con la vista possiamo conoscere se una cosa è bianca, con il gusto che è dolce, con l’udito perché ne abbiamo sentito parlare, che è buona o cattiva; e giudicare se un odore è gradevole o sgradevole è pertinenza dell’odorato, non della ragione. Lo stesso dicasi per il tatto: non è tramite la vista che possiamo sapere se un oggetto è duro o molle, caldo o freddo ma grazie al tatto, che è giudice in questa modalità. Dati questi principi, si vede che l’ordinamento degli esseri generati e di quelli in procinto di nascere si ottiene per mezzo dei numeri. Allo stesso modo che, cominciando dall’unità e aggiungendo successivamente altre unità o i numeri due, tre e seguenti, noi arriviamo, tramite questa agglomerazione di numeri, a costituire un totale unico molto grande, e che in seguito, al contrario, operando delle sottrazioni e degli scorpori su questo totale cresciuto per via di addizione, noi finiamo per risolverlo nei numeri che l’hanno composto, così pure, dice Pitagora, il mondo, trattenuto, per così dire, dai legami dei numeri e della musica, si è mantenuto incorrotto attraverso tutte le epoche grazie a tensione e rilassamento, addizione e sottrazione.


 

25. Ecco quindi come i Pitagorici si spiegano sulla permanenza del mondo: « Sicuramente esisteva prima ed esisterà in seguito; e mai, ritengo, l’inesauribile durata verrà privata di queste due cose » [in realtà Empedocle, fr.16 Diels]. Di quali due cose si tratta? Sono la discordia e l’amicizia. Essi suppongono che sia l’amicizia a rendere il mondo incorruttibile ed eterno, dappoichè la sostanza e il mondo formano una unità. Quanto alla discordia, essa lacera e separa: si sforza di dividere il mondo in una moltitudine di parti. Come se, per calcolo, si dividesse la miriade [10.000] in migliaia, centinaia e dozzine e come se si tagliasse in piccoli pezzi dracme, oboli e quadranti, così, dice Pitagora, la discordia taglia la sostanza del mondo e la divide in animali, vegetali, minerali ed altri esseri analoghi. Così pure, secondo i Pitagorici, la discordia è la fattrice di tutti coloro che vengono a nascere, mentre l’amicizia è la tutrice e la provvidenza del Tutto, è essa che ne assicura la permanenza. Riconducendo all’unità gli esseri scissi e separati dal Tutto e facendoli uscire dalla vita, essa li riunisce ed oppone al Tutto, affinchè questi possa continuare ad esistere, ed è così che difende la propria unità. La discordia non cesserà mai di separare il mondo, né l’amicizia di riunire al mondo gli elementi che ne sono stati separati. E’ questa, sembra, secondo Pitagora, la ripartizione del mondo. Pitagora insegna che gli astri sono dei frammenti staccati dal sole e che le anime degli esseri viventi vengono da questi astri. Tali anime, dice, sono mortali finchè stanno in un corpo, sepoltevi dentro come in una tomba; ma queste resuscitano e divengono immortali quando ci liberiamo del nostro involucro corporeo. Così Platone, a cui domandarono un giorno cosa fosse la filosofia, rispose: « E’ l’anima che si separa dal suo corpo ».


 

26. Platone, infatti, si è formato alla scuola pitagorica adottando le dottrine che Pitagora esprimeva con formule enigmatiche come questa: « Se hai lasciato la tua casa, non farvi ritorno, altrimenti le Erinni, strumento della Giustizia, ti perseguiteranno ». Con la tua casa intendeva dire il corpo e con Erinni le passioni. Se dunque, diceva, ti assenti, cioè se esci dal tuo corpo, non cercare di riprendertelo, perché, se lo fai, le passioni ti imprigioneranno davvero in un corpo. I Pitagorici credevano che le anime passassero da un corpo all’altro, come pure afferma Empedocle, che qui segue Pitagora. Le anime amiche dei piaceri, come dice Platone, se non si sforzano di acquisire la saggezza durante la vita umana, non possono riassumere forma umana se non dopo essersi incarnati in corpi animali e vegetali; poi, se l’anima coltiva la saggezza per tre esistenze umane consecutive, essa si eleva alla natura degli astri corrispondenti; ma, se non fa ciò, ricade nelle condizioni di vita precedenti [Timeo, 42 B]. Secondo Pitagora, l’anima può pure, in certi casi, diventare mortale, quando si lascia dominare dalle Erinni o passioni, ma può nuovamente tornare immortale quando ad esse sappia sfuggire.


 

Nel Timeo leggiamo solo: Colui che trascorrerà rettamente il tempo che gli è stato concesso per vivere, tornerà dopo morto verso il pianeta per cui è maturo e parteciperà della sua felicità; chi avrà fallito si trasformerà in donna alla seconda nascita; se non si migliorerà anche in quel tempo, verrà mutato poi, in base ai suoi vizi, all’animale più analogo a tali vizi.


 

27. Dopo aver accennato alle oscure dottrine che Pitagora insegnava ai discepoli per mezzo di enigmi, è il caso di citare anche tutto il resto; infatti anche i capi degli eretici hanno tentato di fare lo stesso, ma con simboli che non gli appartengono e che hanno rubato ai dialoghi pitagorici. Pitagora, dunque, nei suoi insegnamenti, dice ai seguaci: « lega i vestiti ». Infatti, al momento di mettersi in viaggio, si racchiudono i propri indumenti in una sacca di pelle. Pitagora vuole che anche i discepoli siano pronti, pensando che la morte può giungere ad ogni istante, ed abbiano tutto ciò che può essergli utile. Così insegnava che era necessario per i Pitagorici esortarsi vicendevolmente, fin dall’alba, a preparare le proprie cose, cioè a tenersi pronti a morire. « Non attizzare il fuoco con una spada », volendo dire con ciò: « Non provocare l’uomo in preda all’ira ». « Non passare sopra una scopa », cioè non disprezzare un piccolo affare. « Non piantare una palma dentro casa », cioè non portare in casa propria l’amore per le diatribe; la palma, infatti, simboleggia combattimento e liti. « Non mangiare sopra un carro », cioè non fare un mestiere manuale, al fine di non esser schiavo del corpo, che è corruttibile, ma guadagnati la vita con le arti liberali; potrai così nutrire il corpo e coltivare l’anima allo stesso tempo. « Non assaggiare direttamente un pane intero », cioè non sminuire il tuo patrimonio, ma vivi del tuo reddito e custodisci il tuo capitale come se fosse un pane intero. « Non mangiare fave », cioè non assumere incarichi pubblici, a quei tempi infatti si sorteggiavano con le fave le cariche pubbliche.


 

Su questi vari precetti pitagorici si veda Plutarco, Questioni Romane, 112; Iside e Osiride, 10.


 

28. Queste dunque, tra tante, le cose che dicono i Pitagorici. Gli eretici, che li scimmiottano, passano tra la maggior parte della gente per persone che dicono cose sublimi. Per i Pitagorici l’artefice di tutti gli esseri che giungono all’esistenza, è il sole, grande geometra e calcolatore, che sta saldo al centro del mondo come l’anima lo sta nel corpo, secondo la parola di Platone. Il sole infatti, al pari dell’anima, pertiene all’elemento Fuoco mentre il corpo all’elemento Terra. Nulla sarebbe visibile senza il Fuoco né tangibile senza qualcosa di solido; orbene, senza Terra, non ci può essere consistenza; così Dio ha formato il corpo del Tutto con Fuoco e Terra, ponendo l’Aria nel mezzo [Timeo, 31 B]. Il sole, dice Pitagora, esercita sul mondo la sua arte di calcolatore e geometra così: il mondo sensibile, quello di cui stiamo parlando, è uno. Ora il sole, da quell’abile calcolatore e geometra che è, l’ha diviso in dodici parti. Eccone i nomi: Ariete, Toro, Gemelli, Cancro, Leone, Vergine, Bilancia, Scorpione, Sagittario, Capricorno, Acquario, Pesci. Poi ha diviso ognuna di queste singole parti in trenta parti, che sono i giorni dei mesi. Ha poi diviso ognuna di queste trenta parti in ventiquattro ore e quest’ultime in sessanta minuti, e così via in parti sempre più piccole. Ecco ciò che fa il sole senza tregua: mette assieme queste parti separate per formare l’anno, poi, al contrario, scioglie e divide il suo aggregato; è a questo modo che rende imperituro il vasto mondo.


 

29. — E’ questa, a grandi linee e in breve, la dottrina di Pitagora e Platone. E’ con l’aiuto di essa e non con l’aiuto dei Vangeli che Valentino ha composto, attingendo a brani e frasi, la sua eresia, cosa che dimostreremo facilmente: sarebbe dunque giusto metterlo nel novero dei Pitagorici e dei Platonici piuttosto che in quello dei Cristiani. Dunque Valentino, Eracleone, Tolomeo e tutta la loro scuola, i discepoli di Pitagora e Platone, seguendo i loro maestri, hanno fatto dell’Aritmetica il fondamento del loro proprio insegnamento. Questi eretici in effetti ammettono essi pure, quale principio di Tutto, una monade ingenerata, incorruttibile, inattingibile, incomprensibile, feconda e causa della nascita di tutti gli esseri che sono nati. Essi conferiscono alla detta Monade il nome di Padre. Ma su ciò verte un profondo disaccordo in seno ai Valentiniani: alcuni, per custodire in tutta la sua integrità la dottrina pitagorica di Valentino, pensano che il Padre non ha nessun principio femminile al suo fianco e che è solo; altri, ritenendo del tutto impossibile che un principio maschile possa da solo dar nascita a non importa qual genere di esseri generati, si ritengono in obbligo di associare al Padre stesso dell’universo, affinchè diventi padre, una sposa, Silenzio. Ma se Silenzio sia o non sia la sposa, è questione che lasciamo dibattere ai Valentiniani. In questa sede, richiamando tutti gli insegnamenti pitagorici, manterremo nella nostra disanima il loro principio così com’è, cioè uno, singolo, sufficiente a se stesso. Non esisteva, afferma Valentino, assolutamente alcun essere ingenerato. C’era solo il Padre di ingenerato, senza luogo né tempo, senza un assistente, senza nessun altro essere che fosse in grado di concepire in una qualsiasi maniera. Era solo, immerso nella stasi, come dicono i Valentiniani, riposante in se stesso. Ma siccome era fecondo, volle infine concepire ciò che vi era in lui di più bello e più perfetto e darlo alla luce: non amava infatti la solitudine. Era tutto amore, dice Valentino; ora, l’amore non è amore se non c’è un qualcosa da amare. Il Padre, solo qual’era, emanò, concependo Intelletto e Volontà, cioè una diade, che divenne la sovrana, il principio e la madre di tutti gli Eoni che i Valentiniani annoverano all’interno del Plenitudine. Intelletto emanò contemporaneamente a Verità nel Padre, un figlio fecondo di un padre fecondo, che emanò a sua volta il Verbo e la Vita, imitando così il Padre. Il Verbo e la Vita emanarono l’Uomo e la Chiesa. L’Intelletto e la Verità, vedendo che le proprie emanazioni Verbo e Vita erano feconde, resero grazie al Padre dell’universo e gli offrirono il numero perfetto dei dieci Eoni. Valentino dice che si tratta del numero più perfetto che Intelletto e Verità potessero offrire al padre. Bisognava infatti che il Padre, che è perfetto, venisse glorificato da un numero altrettanto perfetto; ebbene il numero dieci è quello perfetto, perché il primo elemento dei numeri multipli è perfetto. Tuttavia il Padre è più perfetto ancora, perché, essendo l’unico ingenerato, gli è bastata la sua prima unione con Intelletto e Verità, per produrre le radici di tutti gli esseri che sono nati.


 

Gli eresiologi non hanno saputo separare ciò che viene da Valentino e ciò che viene dai suoi successori. Quando hanno voluto esporre il sistema di questo maestro, non hanno saputo fare altro che mescolare le diverse opinioni dei discepoli, e siccome tali opinioni erano spesso contraddittorie, il risultato è stato miserevole. Inoltre non era necessario essere proprio dei pitagorici per parlare di numeri perfetti e imperfetti; queste idee e queste espressioni erano da tempo di dominio pubblico.


 

30. — Il Verbo e la Vita, vedendo che Intelletto e Verità avevano glorificato il Padre di Tutto con un numero perfetto, vollero essi pure, glorificare i loro genitori. Ma quest’ultimi, essendo generati e non possedendo la perfezione del padre loro, che consiste nell’essere ingenerati, non vennero glorificati da un numero perfetto ma sibbene da uno imperfetto: Verbo e Vita offrirono dunque a Intelletto e Verità dodici eoni. Secondo Valentino le prime radici degli Eoni sono Intelletto e Verità, Verbo e Vita, Uomo e Chiesa. Dieci sono gli eoni che derivano da Intelletto e Verità mentre sono dodici quelli che derivano da Verbo e Vita. In tutto ventotto eoni. Ecco i nomi che i Valentiniani attribuiscono ai dieci eoni: Abisso e Unione, Imperituro e Unità, Innato e Piacere, Immoto e Fusione, Unigenito e Beata. Questi dieci eoni sono stati emessi secondo alcuni da Intelletto e Verità ma secondo altri da Verbo e Vita. Quanto ai dodici eoni, secondo alcuni provengono da Uomo e Chiesa, secondo altri da Verbo e Vita. Essi li dignificano con i nomi seguenti: Consolatore, Fede, Paterno, Speranza, Materno, Amore, Inesauribile, Comprensione, Ecclesiastico, Beatifico, Compimento, Saggezza. La dodicesima dei dodici eoni e ultima dell’insieme di ventotto eoni, di sesso femminile, è chiamata Saggezza, e manifesta la varietà e la potenza degli eoni generati e si innalza al livello del Padre; Saggezza vede che tutti gli altri eoni, che sono generati, generano a coppie, e che solo il Padre ha generato senza una sposa. Essa lo volle imitare e generò da sé sola, senza compagno, per compiere un’opera che non fosse inferiore a quella del Padre. Ma ignorava che l’essere ingenerato, principio e radice del Tutto, profondità e abisso, è l’unico capace di generare da solo. Quanto a Saggezza, che è generata e nata come tutti gli altri, non può possedere la potenza dell’essere ingenerato. In quest’ultimo, dice Valentino, tutto è compreso; negli esseri generati, invece, è l’elemento femminile che emette la sostanza mentre quello maschile che dà forma alla sostanza emessa dall’elemento femminile. Saggezza non emette dunque nient’altro da ciò che può emettere: una sostanza informe e disorganica. E’, volendo credere a Valentino, ciò che disse Mosè: « La terra era invisibile e senza organizzazione » [Genesi, I, 2]. Si tratta, sempre secondo Valentino, della vera e celeste Gerusalemme, in cui Dio ha solennemente promesso di introdurre i Figli d’Israele quando disse: « Vi introdurrò in una buona terra, dove scorrono latte e miele » [Esodo, XXXIII, 3].


 

31. L’ignoranza apparve dunque nel corpo di Saggezza all’interno della Plenitudine e l’eterogeneità dentro il suo aborto, cosicchè nella Plenitudine si creò lo scompiglio. Gli eoni si sgomentarono al pensiero che la propria prole potesse nascere anch’essa informe e imperfetta e essi stessi colpiti da qualche forma di corrompimento. Gli eoni fecero dunque tutti insieme ricorso alla preghiera, chiedendo al Padre di porre fine al dolore di Saggezza. Essa infatti piangeva e si lamentava per aver prodotto un aborto, come testualmente dicono i Valentiniani. Mosso a pietà dalle lacrime di Saggezza ed esaudendo la preghiera degli eoni, il padre ordinò di generare di nuovo. Non lui, dice Valentino, ma Intelletto e Verità, che emisero Cristo e Spirito Santo. Secondo alcuni Valentiniani questa è la tricontade eonica ma secondo altri Silenzio è la compagna del Padre, ed essi devono venire annoverati nell’insieme degli eoni. Dunque Cristo, appena venne emesso insieme a Spirito Santo da Intelletto e Verità, separa subito dal gruppo degli eoni quell’aborto informe, unico figlio di Saggezza, generato da lei senza compagno, affinchè la vista di tutta quella massa informe non avesse a turbare la perfezione degli eoni. Per sottrarre interamente alla loro vista la sconcezza di quell’aborto, il Padre emette lui stesso un nuovo e singolo eone, Barriera. Nato grande, essendo figlio di padre grande e perfetto, ed emesso per proteggere gli eoni con un vallo, divenne il confine della Plenitudine rinchiudendo al suo interno tutti e trenta gli eoni, e sono questi che sono stati emessi. Questo eone è chiamato anche Limite, perché separa dalla Plenitudine ciò che è sato messo in disparte. E’ stato inoltre chiamato Partecipe perché partecipa di ciò che è stato messo in disparte; infine Barriera, perché è infisso fortemente e inamovibilmente a tal punto che nessun essere del mondo inferiore può avvicinarsi agli eoni che stanno nella Plenitudine. All’esterno del Limite, della Barriera e del Partecipe si trova ciò che i Valentiniani chiamano Ottava, cioè quella parte di Saggezza che sta fuori della Plenitudine, colei a cui Cristo, appena emesso da Intelletto e Verità, ha dato forma e reso eone perfetto, capace di essere in tutto uguale agli eoni che sono nella Plenitudine. Quando questa Saggezza esterna ebbe ricevuto una forma; siccome non era possibile che Cristo e Spirito Santo, emessi da Intelletto e Verità, stessero fuori della Plenitudine, essi abbandonarono Saggezza e si innalzarono verso i loro genitori all’interno del Limite e si congiunsero agli altri eoni per glorificare il Padre.


 

I tre nomi designano un solo eone: Barriera esprime la sua natura, Limite la sua funzione e Partecipe la sua posizione. Notiamo che questo eone è stato emanato direttamente dal Padre, solo, cioè il Padre non gli ha dato compagnia. E’ dunque l’unico eone che non faccia parte di una coppia.


 

32. Quando dunque l’unione, la pace e l’armonia regnarono tra tutti gli eoni all’interno della Plenitudine, essi decisero di non rendere gloria al Padre soltanto per unione, ma di glorificarlo anche con l’offerta di frutti degni di lui. I trenta eoni decisero quindi all’unanimità di emettere un unico eone, frutto comune della Plenitudine, affinchè fosse il pegno di unità, concordia e pace che regnavano tra di loro. Questo eone emesso all’unisono da tutti gli eoni in onore del Padre, è chiamato, tra i Valentiniani, frutto comune della Plenitudine. Questo dunque è stato ciò che si racconta fosse avvenuto. Il frutto comune della Plenitudine è Gesù, grande sovrano pontefice. Ma la Saggezza esterna alla Plenitudine cercava in ogni dove Cristo, che gli aveva dato forma, e lo Spirito Santo; era in preda ad una grande angoscia, pensando di perire se fosse rimasta separata da colui che le aveva dato forma e consistenza. Era sprofondata nella mestizia e in un grande affanno mentre si domandava chi fosse stato ad averle dato forma, chi fosse Spirito Santo, dove se ne fosse andato, chi le aveva impedito di restare con lei, chi l’aveva privata per invidia della bella e beatifica visione. In tale agitazione di spirito fece ricorso alla preghiera e cominciò a supplicare chi l’aveva lasciata sola. Toccato da quella preghiera, Cristo, all’interno della Plenitudine, ebbe pietà di lei assieme a tutti gli altri eoni. Essi inviarono allora fuori dalla Plenitudine il frutto comune del loro amore affinchè fosse compagno della Saggezza esterna e per sopire le passioni ch’essa provava nel cercare Cristo. Quel frutto, uscito dalla Plenitudine, la trovò preda delle quattro passioni primarie: timore, tristezza, ansietà e preghiera. La calmò e, calmandola, vide che non era necessario sopprimere quegli esseri derivati dagli eoni e consustanziali di Saggezza, né lasciare quest’ultima in preda alle dette passioni. Poiché lui era un importante eone, uscito tutto intero dalla Plenitudine, fece uscire Saggezza dalle proprie passioni e queste le trasformò in esseri reali e sostanziali: fece della paura una sostanza psichica, della tristezza una sostanza materiale, dell’ansietà una sostanza demonica; quanto alla conversione, alla preghiera e alle suppliche ne fece lo strumento del Pentimento ed una forza della sostanza psichica che è chiamata destra o Demiurgo. Il punto di partenza è la paura. Valentino cita la Scrittura: « principio di saggezza, è temere il Signore» [Salmi CXI 10; Proverbi I, 7]. Da questo punto infatti cominciano le passioni di Saggezza: provò la paura, poi la tristezza, quindi l’ansietà e poi ricorse alla preghiera e alle suppliche. La sostanza psichica, dice Valentino, è di fuoco; i Valentiniani la chiamano fuoco intermedio, Settina, Antico dei giorni [Daniele VII 9, 13, 22]; e tutto ciò che dicono di simile su questo argomento si riferisce all’essere psichico che, secondo Valentino, è il creatore del mondo; ebbene questo Demiurgo è di fuoco. Mosè stesso, dice Valentino, ha esclamato: « Il Signore tuo Dio è un fuoco che brucia e divora » [Deuteronomio IX, 3]. Questo è, secondo Valentino, il testo della Scrittura. Questo fuoco, lui dice, ha una duplice virtù: divora tutto e non può essere spento. Grazie a ciò, l’anima è mortale nella sua qualità di essere intermedio: essa infatti è Settina e Quiete; sta al di sotto dell’Ottava, dimora di Saggezza, il giorno che ha ricevuto una forma e di colui che è il frutto comune della Plenitudine. Peraltro essa è al di sopra della materia, dimora del Demiurgo. Se essa si fa perfettamente simile alle cose superiori, all’Ottava, diventa immortale e sale all’Ottava che, dice Valentino, è la Gerusalemme celeste. Ma se si rende simile alla materia, cioè alle passioni carnali, diviene corruttibile e perisce.


 

33. Così come dunque la prima e più grande forza della sostanza psichica è l’immagine del Figlio unico, così pure la forza della sostanza materiale è il diavolo, principe di questo mondo, la forza della sostanza dei demoni, sortita dall’ansietà, è Belzebù. Quanto a Saggezza, essa agisce dall’alto, dall’Ottava alla Settina. Il Demiurgo, affermano i Valentiniani, non sa assolutamente nulla; esso è, per loro, privo di intelligenza e stupido; non è conscio di ciò che fa o produce. Siccome non sa ciò che fa, Saggezza lo ha aiutato in tutto ispirandolo e dandogli forza; agendo solo sotto ispirazione di Saggezza, immaginò nondimeno di operare da se stesso la creazione del mondo; ecco perché disse: « Io sono Dio, e al di fuori di me non c’è altro » [Deuteronomio IV, 35 e Isaia XLV, 5].


 

34. Il quaternario di Valentino è dunque una fonte che affonda le sue radici nella natura inesauribile; è anche la Saggezza, la potenza per la quale si è stabilita la creazione psichica e materiale attualmente esistente. Saggezza è detta Spirito, il Demiurgo è detto Psiche, il Diavolo è detto principe del Mondo e Belzebù principe dei demoni. Questa è la dottrina dei Valentiniani. Inoltre, facendo di tutto il loro insegnamento una specie di aritmetica, come ho già detto, affermano che ai trenta eoni che stanno all’interno della Plenitudine si sono aggiunti, mediante nuove emanazioni, altri eoni in numero proporzionale affinchè la Plenitudine sia composta da un numero perfetto. Come abbiamo già detto, i Pitagorici computano per dodici, trenta e sessanta; essi hanno anche dei minuti e delle ore; è così che i Valentiniani suddividono gli esseri all’interno della Plenitudine. Suddividono ugualmente gli esseri che stanno nell’Ottava: Saggezza, che dopo di questi è la madre di tutti i viventi, e Gesù, frutto comune della Plenitudine, hanno emanato settanta Verbi, gli angeli celesti, abitanti della Gerusalemme superiore che è nei celi. Questa Gerusalemme è la Saggezza esterna, il cui sposo è il frutto comune della Plenitudine. Anche il Demiurgo emanò delle anime: questa è, secondo i Valentiniani, l’essenza delle anime; per analogia Abramo e i figli di Abramo. Con la sostanza materiale e diabolica il Demiurgo creò i corpi destinati a contenere le anime. E’ questo il significato delle parole: « E Dio modellò l’uomo con la polvere della terra e gli diresse in faccia un soffio di vita e l’uomo divenne un’anima vivente » (Genesi II, 7). E’, secondo i Valentiniani, l’uomo psichico interiore, che abita il corpo materiale, cioè l’uomo materiale, perituro, interamente sostanziato di materia diabolica. Quest’uomo materiale assomiglia ad una locanda o a una casa in cui l’anima dimora sia sola che in compagnia dei demoni o dei Verbi. Quest’ultimi derivano dal frutto comune della Plenitudine e di Saggezza, che dall’alto li hanno seminati in questo nostro mondo; essi abitano con l’anima nel corpo della terra, quando i demoni non vi sono uniti. E’ ciò che si legge nella Bibbia, dice Valentino: « Per questo, io mi inginocchio davanti a Dio, Padre e Signore di nostro Signore Gesù Cristo, affinchè Dio vi conceda che Cristo abiti nell’uomo interiore »; si tratta dell’uomo psichico e non dell’uomo corporeo; « affinchè voi siate capaci di capire ciò che è la profondità», la quale è il Padre dell’universo, « e ciò che è la larghezza», la quale è Barriera, confine della Plenitudine, « o ciò che è la lunghezza », cioè la Plenitudine degli eoni» [Efesini III 14-19]. A causa di ciò, dice Valentino, « l’uomo psichico non comprende ciò che pertiene allo Spirito di Dio, poiché per lui sarebbe una follia » [1 Corinti II,14]; ora, lui dice, la forza del Demiurgo viene dalla follia; questi infatti era stupido e senza intelligenza e credeva di poter creare lui stesso il mondo ignorando che Saggezza, la Madre, l’Ottava, gli ispirava a sua insaputa tutto ciò che era necessario per creare il mondo.


 

35. Tutti i profeti e la Legge hanno parlato per ispirazione del Demiurgo, dio stupido, dice Valentino; essi stessi erano stupidi e ignoranti. E’ per questo che il Salvatore ha detto: « Tutti quelli che mi hanno preceduto sono ladri e briganti» [Giovanni X, 8]. Da qui anche quella parola dell’apostolo: « Il mistero che non è stato rivelato alle generazioni precedenti» [Colossesi I, 26]. Nessuno dei profeti infatti, dice Valentino, ha mai detto nulla sulle verità che noi insegniamo… [il finale del paragrafo è difettoso]. Quando fu terminata la creazione, quando si compì la rivelazione dei figli di Dio, cioè del Demiurgo, fino a quel momento nascoste; perché, dice Valentino, l’uomo psichico era inviluppato e aveva un velo sul cuore [2 Corinti, III, 15]; quando venne dunque il momento di levare tale velo e di mettere in vista i misteri, Gesù venne al mondo attraverso la vergine Maria, in base a ciò che era stato scritto: « Uno Spirito Santo scenderà su te »; questo Spirito è Saggezza; « E una virtù dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra »; l’Altissimo, è il Demiurgo; « per questo il bambino che nascerà da te sarà detto santo » [Luca I, 35]. Gesù infatti non è nato dall’Altissimo così come gli uomini discesi da Adamo, che sono stati creati solo dall’Altissimo, cioè dal Demiurgo. Gesù, uomo nuovo, è nato da uno Spirito Santo e dall’Altissimo, cioè da Saggezza e dal Demiurgo: è stato quest’ultimo che ha plasmato, disposto e organizzato il suo corpo mentre lo Spirito Santo gli ha dato la sua essenza ed è così che il Verbo celeste è nato dall’Ottava, messo al mondo attraverso Maria. Su questo punto c’è stato un grande dissidio tra i Valentiniani, causa di scismi e litigi. Da ciò è sorta la divisione della loro eresia in due scuole, che essi chiamano scuola orientale e scuola italica. La scuola italica, a cui appartiene Eracleone e Tolomeo, sostiene che il corpo di Gesù è nato psichico e per questo, al momento del battesimo, lo Spirito, cioè il Verbo della Madre celeste, Saggezza, scese su di lui sotto forma di colomba, gridò in direzione del corpo psichico e lo svegliò tra i morti. E’ quello che, dice Valentino, noi leggiamo: « Colui che ha resuscitato Cristo dai morti renderà viventi anche i vostri corpi mortali assieme ai corpi psichici » [Romani VIII, 11]. Infatti la polvere è votata alla maledizione: « Tu sei terra, è scritto, e ad essa farai ritorno » [Genesi III, 19]. La scuola orientale cui appartengono Assionico e Bardesane, insegna al contrario che il corpo di Gesù era spirituale: infatti lo Spirito Santo, cioè Saggezza, è disceso su Maria unitamente alla virtù dell’Altissimo, cioè l’arte del Demiurgo, ed è venuto a plasmare ciò che aveva infuso in Maria.


 

Assionico insegnava ad Antiochia le dottrine di Valentino. Bardesane non restò tutta la vita fedele alla dottrina di Valentino. Ad u certo punto lo rinnegò e scrisse contro la dottrina della Plenitudine.


 

36. Lasciamo comunque tali questioni ai Valentiniani e a coloro che ne sono interessati. Valentino aggiunge che gli errori commessi dagli eoni che stanno all’interno della Plenitudine erano stati sanati, così come quelli commessi nell’Ottava, la Saggezza esteriore, e nella Settina. Il Demiurgo infatti seppe da Saggezza di non essere il Dio unico, come credeva, e che al di fuori di lui ce n’era un altro; istruito da Saggezza, conobbe il Dio che stava al di sopra di lui; grazie alle lezioni e agli insegnamenti di Saggezza, venne iniziato al grande mistero del Padre e degli eoni. Tuttavia non fece rivelazione di questo mistero con nessuno. E’ ciò che, dice Valentino, egli confidò a Mosè: « Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e ad essi non ho detto il mio nome » [Esodo VI, 2-3], cioè non ho rivelato il mistero né spiegato chi è Dio, ma l’ho custodito in me stesso, nel segreto, mistero che ho avuto da Saggezza. Ristabilito l’ordine nel mondo superiore, bisognava ora ristabilirlo in quello inferiore: così Gesù, il Salvatore, venne al mondo attraverso Maria. La sua missione era quella di ristabilire l’ordine del mondo sublunare così come aveva fatto il Cristo superiore, emanato in sovrappiù da Intelletto e Verità, aveva sanato le passioni della Saggezza esteriore, cioè l’aborto. Quindi il Salvatore partorito attraverso Maria ha il compito di correggere le passioni dell’anima. Ci sono quindi, per i Valentiniani, tre Cristi: quello che è stato emanato dopo gli altri eoni, con lo Spirito Santo, da Intelletto e Verità; poi il frutto comune della Plenitudine, compagno della Saggezza esteriore, chiamato anch’esso Spirito Santo ma di ordine inferiore al suo omonimo; infine il terzo Cristo è quello nato attraverso Maria per ripristinare l’ordine di questo mondo.


 

37. Penso di avere dimostrato a lungo e a sufficienza l’origine pitagorica dell’eresia di Valentino; fermiamoci dunque qui. Platone, spiegando i misteri dell’universo, scrive a Dionigi la lettera seguente [Seconda Lettera, probabilmente falsa]: « Ricomincio la mia spiegazione sotto il velo dell’enigma, affinchè, se dovesse capitare un incidente a questa mia lettera in mare o sulla terra, chi la leggerà non ne potrà cogliere il significato. Ecco dunque: attorno al re dell’universo gravitano tutti gli esseri; egli è il termine di tutto e la causa di ogni bellezza. Attorno al secondo principe gravitano le cose seconde e attorno al terzo le terze. Ma al cospetto del re nessuna delle cose che ho menzionato è reale. Per il resto, l’anima umana desidera ardentemente penetrare questi misteri; per farlo, essa getta lo sguardo su tutto ciò che gli si avvicina pur non trovando nulla che la possa soddisfare. E’ questo problema, o figlio di Dionigi e di Doride, che è la causa di tutti i mali o piuttosto della condizione di inquietudine che produce nell’anima; finchè questa non ne viene liberata, non è in grado di conseguire la verità [interruzione nel testo]. Ma ascolta ciò che vi è di sbalorditivo: ci sono uomini che inteso questo insegnamento sono in grado di comprenderlo, di accettarlo e assimilarlo dopo un approfondito esame; essi sono già anziani. Ebbene! Essi assicurano che ciò che allora gli pareva degno di fede gli appare ora incredibile e ciò che all’epoca gli pareva incredibile è ora, per essi, del tutto credibile. Considerando tutto ciò, guardati dal non doverti pentire un domani di ciò che tu lascerai trapelare agli indegni [interruzione nel testo]. Cosicchè, io non scrissi mai nulla su questi argomenti; non c’è e non ci sarà mai nessun libro di Platone; quelli che oggi mi vengono attribuiti sono di Socrate, al tempo della sua bella giovinezza ». Soffermandosi su questo brano, Valentino ha supposto che il re di tutte le cose e di cui parlava Platone, fosse il Padre, Abisso e principio primo di tutti gli eoni. Avendo Platone parlato delle cose seconde che gravitano attorno al secondo principio, Valentino si è figurato che tali seconde realtà sono la Plenitudine che è all’interno del Limite, ovvero l’insieme degli eoni, mentre per le cose terze che gravitano attorno al terzo principio egli ha compreso tutto l’ordinamento del mondo che sta fuori del Limite e della Plenitudine. Questo ordinamento è stato esposto da Valentino in un cantico di poche strofe. Egli comincia dal basso e non, come Platone, dall’alto. Ecco ciò che dice: « Scorgo tutto sospeso nell’etere, vedo tutto sorretto dallo spirito, la carne sospesa all’anima, l’anima che scaturisce dall’aria, l’aria sorretta dall’etere, dei frutti che pendono sull’abisso e un bambino che esce dalla matrice ». Ecco ciò che intende Valentino con questi versi: la carne, secondo i Valentiniani, è la materia, che è sospesa all’anima del Demiurgo; l’anima scaturisce dall’aria, cioè il Demiurgo nasce dallo Spirito che sta fuori dalla Plenitudine; l’aria scaturisce dall’etere, cioè la Saggezza esteriore nasce da ciò che sta all’interno del Limite e dell’intera Plenitudine; i frutti che sporgono sull’abisso, è l’intera emanazione degli eoni compiuta dal Padre. Abbiamo così parlato a sufficienza delle dottrine di Valentino. Ci resta da dire di coloro che sono nati dalla sua scuola, opinioni che cambiano da un dottore all’altro.


 

Valentino aveva certamente una forte immaginazione; ma gliene sarebbe servita una davvero prodigiosa per ricavare dalla farragine di questa lettera, un sistema come il suo. Sembra che Ippolito abbia scelto volutamente, nelle opere attribuite a Platone, il brano più oscuro e ridicolo per farne il punto di partenza dell’eresia valentiniana.


 


 

MARCO


 


 

40. Un altro dottore valentiniano, Marco, versato nella magia, ingannava molti uomini sia con i suoi trucchi che con l’aiuto dei demoni. Aveva la pretesa di possedere una grandissima potenza che gli sarebbe giunta da un luogo che l’occhio umano non può scorgere e che non si può indicare con nessun nome. Spesso, prendendo una coppa come se stesse celebrando l’eucarestia e prolungando oltre il necessario il rito dell’invocazione [epiklèsis], faceva apparire la miscela in essa contenuta di color porpora o rossa, cosicchè la gente, ingannata, pensava che una qualche sorta di grazia stesse scendendo trasformando la bevanda in sangue divino. Le furberie di Marco sono passate inosservate agli occhi di molti ma dopo che queste vennero scoperte, egli ne fece a meno. Marco gettava nascostamente nella miscela eucaristica una pianta capace di conferire il suo colore; poi, parlava a lungo per dare il tempo al vegetale di infondersi e tingere il liquido. In precedenza, nel capitolo contro i maghi, abbiamo detto di quelle spezie in grado di sortire un tale effetto e spiegato come quei miserabili celino la frode e ingannino un così gran numero di persone. Chi vorrà rileggere con maggiore attenzione ciò che scrivemmo [Philosophumèna, IV], comprenderà anche i trucchi di Marco.


 

l’origine filosofica e pagana dell’eresia in questione. Per una volta, almeno, Ippolito ha pienamente ragione: è assolutamente vero che Marco e i Marcosiani sono discepoli fanatici della filosofia neo-pitagorica.

Marco fu un abile mistificatore e un seduttore di donne. Nella sua Chiesa, le cerimonie erano numerose e imponenti; la celebrazione dell’Eucarestia in particolare si accompagnava spesso a trucchi di prestigio spacciati per miracoli.


 

41. Formando la miscela eucaristica in una coppa più piccola, la passava ad una donna affinchè questa assumesse l’eucarestia, ma tenendosi vicino a lei. Dopo averne presa un’altra coppa ma più grande e vuota, riceveva dalle mani della donna imbrogliata quella con cui si era comunicata e ne versava il contenuto restante nella coppa maggiore. Travasava più volte il contenuto da una coppa all’altra dicendo: « Che la grazia che è in tutte le cose e che non si può concepire con la mente né esprimere con la parola, riempia l’uomo interiore che è in te ed aumenti la conoscenza di lui in te, seminando il grano di senape nella buona terra ». Aggiungendo altre parole dello stesso tenore e gettando nello stupore la donna gabbata e tutti i presenti, si spacciava in tal modo per un taumaturgo: come scrivemmo nel capitolo contro i maghi, infatti, usava il sotterfugio di non riempire troppo la coppa più grande cosicchè non se ne potesse distinguere il contenuto. In quel capitolo abbiamo indicato un gran numero di droghe che, mescolate a dei liquidi, specie al vino annacquato, possono aumentarne il volume. Prendendo una di queste droghe, la sminuzzava e nascondendo la coppa vuota faceva vedere che non conteneva nulla; poi vi gettava dentro il contenuto dell’altra coppa e faceva più volte un travaso. La droga, mescolandosi al liquido, si scioglieva ed effervescendo andava ad aumentare il volume della miscela, che si ingrossava sempre più a seconda del numero dei travasi. Questa è dunque la caratteristica di tale droga. Se si lascia riposare il contenuto nella coppa, questo ritorna alle dimensioni naturali poiché la droga dopo un pò perde la sua efficiacia. Pertanto Marco si affrettava a far bere il contenuto della coppa ai presenti; quest’ultimi la bevevano come fosse qualcosa di divino e di vicino a Dio, frettolosamente e con sgomento.


 

42. Tali furono, fra tante, le azioni di quel ciarlatano. Le sue vittime lo innalzarono al cielo. Lo credevano in grado di profetizzare e di far profetizzare gli altri. Si tratta di trucchi che compiva talvolta con l’ausilio dei demoni e tal’altra per la sua abilità, come già dicemmo. Marco corruppe molti uomini e molti di questi divennero suoi discepoli. Gli insegnò ad abbandonarsi al peccato, senza tema, poiché essi appartenevano alla potenza perfetta e partecipavano di un potere che è al di sopra di ogni concezione morale. Ai loro discepoli i Marcosiani promettevano, anche dopo il battesimo, un secondo battesimo, che chiamavano redenzione, e, facendogli balenare davanti agli occhi continuamente la possibilità di questa redenzione, con una nuova remissione dei peccati dopo il primo battesimo, ne corrompevano un gran numero. Essi credono, con tale furberia, di crearsi un seguito. Quando i Marcosiani pensano che il seguace sia sufficientemente affidabile e capace di osservare gli impegni contratti con loro, allora lo ammettono a questo nuovo battesimo. Ma non si contentano di ciò, e gli promettono in sovrappiù – per legarseli totalmente con la speranza –, imponendo la mano sul seguace al momento della redenzione, un qualcosa con voce impercettibile. Questo qualcosa, essi affermano, non possono e non vogliono rivelarlo se non a chi abbia superato delle prove particolari oppure ai moribondi, cui viene rivelato all’orecchio dal vescovo. Quest’ultimo trucco ha lo scopo di garantire al presule l’affezione costante dei discepoli, i quali bruciano dal desiderio di conoscere questo segreto che si dice solo all’ultimo e la cui rivelazione fa appartenere al novero dei perfetti. Se io stesso non lo rivelo qui, è perché non voglio dare l’impressione di ridicolizzare i Marcosiani, e non è questo il mio intento. Preferisco piuttosto indicare i principii da cui essi sono partiti per edificare le proprie dottrine.


 

Ippolito qui si atteggia a generoso e ci lascia capire che riguardo a Marco e ai Marcosiani egli sappia molto più di quanto scriva. Più avanti scriverà che gli è noto anche il loro famoso segreto. In realtà né Ireneo né Ippolito hanno mai tralasciato alcunchè che potesse alleviare la posizione dei loro avversari. Su questo aspetto essi hanno piuttosto aggiunto anziché omesso. Soprattutto Ippolito non ha mai peccato per eccesso di discrezione e carità! Se non rivela il famoso segreto è, o perché questo in realtà non esisteva o perché non lo conosceva.


 

43. Il beato vescovo Ireneo, che si è impegnato a confutarli con grande libertà di espressione, ha descritto i battesimi e le redenzioni in questione, raccontando con dovizia di particolari ciò che fanno questi eretici. E’ vero che alcuni di essi, avendo letto le accuse di Ireneo, dicono di non sapere nulla di tutto ciò; ma perché gli è stato detto di negare tutto. Pertano abbiamo concepito il progetto di compiere minuziose ricerche per cercare di scoprire esattamente gli insegnamenti che costoro si tramandano nel primo battesimo, così lo chiamano, e nel secondo, detto redenzione. Persino il loro segreto non ci è sfuggito… ma lasciamo perdere Valentino e i Valentiniani. Marco, seguendo Valentino, inventa anch’esso una visione, con la quale ritiene di circondarsi di un’aureola di gloria. Valentino infatti pretese che un neonato gli era apparso. Avendogli chiesto chi fosse, quello disse di essere il Verbo. Poi Valentino ha intessuto su questo racconto fasullo un significato edificante, da cui ha derivato gli elementi della sua eresia. Con analoga audacia, Marco affermò che la Tetrade gli apparve sotto le sembianze di una donna [da qui in poi il testo segue quasi testualmente quello di Ireneo]; disse, infatti, che il mondo non poteva manifestare l’elemento maschile che è in essa. La donna gli rivelò chi essa fosse; e la generazione del Tutto, che questa non aveva mai rivelato nè ad uomini né a Dei, lei l’avrebbe descritta al solo Marco nei seguenti termini. Quando, ai primordi, colui che non aveva padre e che era al di sopra di ogni concezione e di ogni natura, che non era né maschio né femmina, volle che ciò che vi era in lui di inespresso fosse esprimibile e che ciò che vi era di invisibile desse forma di sé, aprì la bocca ed emise un Verbo simile a lui stesso. Ponendosi al suo fianco, il Verbo gli mostrò chi fosse, il Verbo essendo la forma visibile dell’invisibile. La pronuncia del suo nome avvenne in questo modo: enunciò la prima parte del nome, il suo principio, e la sillaba così formata si componeva di quattro lettere; poi aggiunse la seconda sillaba, che era, essa pure, di quattro lettere; pronunciò poi la terza sillaba che era di dieci lettere e infine la quarta di dodici. Il nome pronunciato comprendeva quindi un totale di trenta lettere e quattro sillabe. Ogni elemento possiede sue lettere proprie, un segno distintivo, una sua pronuncia, figura ed immagine, ma nessuno di questi elementi è in grado di distinguere la forma di quest’essere di cui è l’emanazione diretta; né conosce la pronuncia dei suoi simili; egli crede che ciò che pronuncia si riferisce a tutto ed è il nome di tutto. Ogni elemento, infatti, essendo una parte del tutto, pensa, col suo proprio suono, di chiamare il tutto, e non smette di emetterlo finchè, emettendo dei suoni successivi, perviene a pronunciare l’ultima lettera dell’ultimo elemento. Secondo Marco, la restaurazione universale avviene quando tutti gli elementi, giunti ad una sola ed unica lettera, emettono una sola e identica pronuncia, e l’immagine di questa pronuncia, suppone Marco, è quell’amen che noi recitiamo quando preghiamo. Sono questi i suoni che compongono la forma dell’eone senza natura e ingenerato; sono delle forme che il Signore ha chiamato angeli e che contemplano in perpetuo il volto del Padre.


 

Il numero degli eoni che compongono la Plenitudine (Pleroma) varia da una scuola all’altra: alcuni tra i Valentiniani ne annoverano 28, altri 30, altri ancora 32. I Marcosiani 30.


 

44. Marco ha dato agli elementi, come nomi comuni che possono essere divulgati, quelli di Eoni, Verbi, Radici, Semi, Plenitudini, Frutti. Quanto ai loro nomi specifici essi sono contenuti, dice Marco, nel nome Chiesa ed è in essa che li si può scoprire. L’ultima lettera dell’ultimo di questi elementi emise una voce, la sua voce; il suono emesso da questa lettera generò degli elementi propri, immagine degli elementi. E’ a questi elementi, dice Marco, che le cose di quaggiù debbono la loro organizzazione e quella delle cose che verranno. La stessa lettera il cui suono seguiva il suono in basso è stata, secondo Marco, presa in alto dalla sillaba di cui faceva parte, per completare il tutto; quanto al suono, è rimasto nel dominio di quaggiù, come se fosse stato cacciato all’esterno. L’elemento stesso, di cui la lettera fa parte assieme alla pronuncia specifica per discendere in basso, è di trenta lettere, dice Marco, e ciascuna di esse contiene in se stessa altre lettere che formano il suo nome. Quest’ultime, a loro volta, hanno il loro nome composto di nuove lettere che hanno il loro nome formato da altre lettere ancora, cosicchè l’insieme di tutte queste lettere scritte in sequenza progredisce all’infinito. L’esempio che segue spiegherà il tutto. L’elemento delta si compone di cinque lettere: delta, epsilon, lambda, tau e alpha, e queste a loro volta si scrivono per mezzo di altre lettere. Se, dunque, tutte le lettere che compongono delta si sviluppano all’infinito, ogni lettera generando nuove lettere che si succedono senza posa, quanto più ampio di questo elemento sarà l’oceano delle lettere! E se questa lettera da sola è così infinita, si pensi a quale abisso sia il complesso delle lettere che lo compongono, e con l’aiuto delle quali Marco, dandosi tanta pena, ma del tutto inutilmente, vuole comporre il Propater! Così il Padre, conscio della sua immensità, ha dato agli elementi, che Marco chiama del pari Eoni, il potere di emettere da soli la loro propria pronuncia, un elemento da solo essendo incapace di pronunciare il tutto.


 

Il sistema descritto in questo capitolo consiste nel contare le lettere che compongono il nome di una lettera qualunque e nel ripetere la procedura ad ogni nuova lettera. Prendiamo ad esempio la lettera delta. Essa contiene di per sé 5 lettere (d-e-l-t-a). Ma ognuna di queste cinque, a sua volta, ha un suo nome. Per esempio la seconda è epsilon. Ciò ci da altre 6 nuove lettere (e-ps-i-l-o-n), prendiamo solo una di queste: la iota per esempio, ed avremo di nuovo quattro lettere (i-o-t-a). La seconda di quest’ultimo gruppo ci dà cinque nuove lettere (o-m-e-g-a), la seconda di quest’omega (m-i) due, il gamma (g-a-m-m-a) cinque, l’alfa (a-l-ph-a) quattro. E’ evidente che continuando a procedere in questo modo si giunge ad un numero di lettere incalcolabile.


 

45. Dopo avergli dato queste spiegazioni la Tetrade, dice Marco, aggiunse: « Voglio mostrarti la Verità in persona. L’ho fatta discendere dai cieli affinchè tu la possa contemplare nuda, osservandone la bellezza, ascoltandola parlare e ammirandone la saggezza. Guarda prima in alto, la sua testa, α e ω, il suo collo βψ, le spalle con le mani γχ, il petto δφ, il diaframma ευ, il ventre ζτ, i genitali ης, le coscie θρ, le ginocchia ιπ, le gambe κο, le caviglie λξ e i piedi μν ». E’ questo, per Marco, il corpo della Verità, l’aspetto di questo elemento e il carattere di questa lettera. Tale elemento si chiama Uomo, è la scaturigine di ogni parola, il cominciamento di ogni voce, l’espressione di tutto ciò che è inesprimibile, bocca del Silenzio. « Questo è il corpo della Verità. Quanto a te, innalza la tua mente ed ascolta, dalla bocca della Verità, ciò che riguarda Colui che si è generato da solo e che è il Propater, il Verbo ».


 

Per ottenere questa bizzarra associazione di lettere, si prende l’alfabeto greco dagli estremi unendo, due a due, le lettere lontane (α+ω, β+ψ ecc.).


 

46. Quando la Tetrade ebbe parlato, la Verità, guardò Marco e, aperta la bocca, pronunciò una parola, e questa divenne un nome, e questo nome è quello che conosciamo e pronunciamo: Gesù Cristo. Pronunciatolo si tacque ma siccome Marco si aspettava che continuasse, la Tetrade, venendo avanti di nuovo, gli disse. « Hai considerato senza importanza questa parola pronunciata dalla bocca della Verità? Questo nome non è così come lo conosci e credi di possedere da tempo; ne conosci soltanto il suono, ma ne ignori la virtù. Gesù in effetti è un nome eccelso, formato da sei lettere e invocato da tutti i cristiani. Ma il nome con cui è conosciuto fra gli Eoni della Plenitudine, essendo composto da numerose parti, ha un’altra forma e un’altra immagine ed è noto ai soli Eoni a lui somiglianti le cui potenze sono sempre con lui ».


 

47. Sappi che le ventiquattro lettere del vostro alfabeto sono emanazioni e immagini delle tre potenze che contengono il Tutto e il numero degli elementi superiori. Le nove consonanti, considerale come le immagini del Padre e della Verità. Anche loro sono mute, cioè ineffabili e indicibili. Le otto semivocali appartengono all’ambito del Verbo e della Vita. Esse fungono come da mediatrici tra le consonanti e le vocali, ricevendo dalle prime ciò che fluisce dall’alto e dalle seconde ciò che sale dal basso. Le sette vocali sono l’immagine dell’Uomo e della Chiesa: è infatti la voce dell’Uomo che, essendo stata emessa, ha dato forma al Tutto; è il suono di questa voce che gli ha dato forma. Il Verbo e la Vita hanno quindi le otto semivocali, l’Uomo e la Chiesa le sette vocali, il Padre e la Verità le nove consonanti. Mancava però la proporzione: colui dunque che era stato stabilito nel Padre venne inviato al di fuori della Plenitudine e discese verso colui da cui era stato separato per riordinare ciò che era stato fatto affinchè l’unità delle plenitudini, essendo esse nel bene, avesse come esito di rendere una in tutto la potenza che viene dal tutto. E così il gruppo dei sette ricevette le virtù degli otto, e i tre luoghi divennero uguali in numero, essendo tutti e tre delle ottine; e questi tre gruppi di otto, unendosi gli uni agli altri, formarono il numero ventiquattro. I tre elementi che, per Marco, sono appaiati alle tre potenze, il che fa sei, e da cui emanano le ventiquattro lettere, quadruplicate in rapporto all’ineffabile Tetrade, formano il loro stesso numero. Questi elementi, sempre secondo Marco, appartengono all’ambito dell’Innominabile; essi sono, a somiglianza dell’Invisibile, trasportati dalle sei potenze. Le lettere doppie sono le immagini delle immagini di questi elementi; tali lettere, aggiunte alle ventiquattro, danno, in virtù dell’analogia, il numero trenta.


 

48. Risultato di questa proporzione ed piano divino fu l’apparizione, dice Marco, a somiglianza di un’immagine, di colui [ Matteo XVII, 1] il quale, dopo sei giorni, ha asceso la montagna, lui quarto; che ne è disceso dopo essere divenuto sesto e che si è fermato alla Settina, essendo lui stesso Ottava insigne e possedendo il numero completo degli elementi. Tale numero si manifestò quando su Gesù, al battesimo, discese la colomba, che è α e ω, lettere che compongono il numero 801 [ωά]. E’ per questo che Mosè riferisce la creazione dell’uomo al sesto giorno [Genesi I, 26-31]; nell’piano divino della passione, è il sesto giorno della settimana, cioè il giorno della Preparazione [Venerdì, cominciando da Domenica], che l’ultimo uomo [Gesù] è apparso per la rigenerazione del primo [Adamo]. Il principio e la fine di questa piano divino, è l’ora sesta, quella in cui Gesù venne inchiodato alla croce. Perché l’Intelletto perfetto, sapendo che il numero sei [digamma] possiede il potere della creazione e della rigenerazione, ha manifestato ai figli della luce la potenza esercitata dall’apparizione del numero sei in vista della rigenerazione operata da lui. Ecco anche perché Marco insegna che le lettere doppie racchiudono il numero sei [ζ+ξ+ψ= 6]. Perché questo numero notevole, aggiunto alle ventiquattro lettere, ha completato il novero delle trenta lettere.


 

49 [paragrafo sconnesso]. Ha poi volto a suo vantaggio il significato dei sette numeri per mettere in luce il frutto della determinazione volontaria e spontanea. Comprendi, dice Marco, questo numero notevole [6] di cui parliamo, numero che ha derivato la sua forma dall’insigne, che è stato frazionato, se così si può dire, ed è rimasto all’esterno: è questo numero, grazie alla sua potenza e saggezza, per mezzo dell’emanazione che ha posto in essere, ha animato, a somiglianza della Settina, questo mondo di sette potenze dando così un’anima a tutto il mondo visibile. Si serve inoltre di quest’opera come di cosa fatta volontariamente e spontaneamente da lui; tali cose servono, poiché sono imitazioni delle cose inimitabili del pensiero della Madre. Il primo cielo echeggia del suono dell’alpha, il secondo dell’epsilon, il terzo dell’eta; il quarto, che sta a metà dei sette cieli, esprime la virtù dello iota; il quinto pronuncia l’omicron, il sesto l’ypsilon; il settimo cielo, che è il quarto a partire dal centro, l’omega. Tutte queste potenze, abbracciantesi l’un l’altra tanto da formare un tutto, emettono un suono per tessere le lodi di colui che le ha emanate. La gloria emessa da questo suono è inviata in alto verso il Propater. Tuttavia, dice Marco, il suono di questo concerto di lodi, giungendo sulla terra, diventa l’artefice e il padre degli esseri che stanno sulla terra. Ne abbiamo una prova nei neonati: appena escono dal grembo la loro anima emette un grido analogo al suono reso da ciascuno di questi elementi. Così come, dunque, le sette Potenze glorificano il Verbo, così pure fa l’anima, nei neonati, piangendo. E’ per questo motivo che Davide ha detto: « dalla bocca dei neonati che ancora non parlano e succhiano il seno tu hai tratto una lingua » [Salmi VIII, 3]; e ancora: « i cieli cantano la gloria di Dio » [Salmi XIX 18,2]. Quando l’anima è prigioniera della sofferenza essa non emette altro grido, nel suo sgomento, che quello dell’omega, in modo che l’anima che sta in alto riconosca l’elemento che gli è assimilato e gli presti soccorso.


 

50. Questo è, nella fattispecie, l’insegnamento di Marco. Ecco ora come spiega la nascita dei ventiquattro elementi. Con l’Unicità coesiste l’Unità, e da esse derivano la Monade e l’Uno che, essendo due volte due, formano quattro. Poi questi due e questi quattro elementi uniti assieme originano il numero sei; e questi sei, moltiplicati per quattro, danno il numero ventiquattro. Tali nomi della prima Tetrade considerati come santissimi e impronunciabili, sono conosciuti solo al Figlio. Anche il padre ne conosce i nomi. Secondo Marco i nomi che vanno pronunciati nel silenzio e nella fede sono: Ineffabile e Silenzio, Padre e Verità. Il numero complessivo delle lettere di questa Tetrade è ventiquattro. Infatti Ineffabile conta sette lettere, Silenzio cinque, Padre cinque, Verità sette [per alcune parole Marco “gioca” con l’utilizzo dei dittonghi inespressi. Così Silenzio Σιγέ diventa Σειγέ e Χριστός diventa Χρειστός]. Parallelamente la seconda Tetrade, Verbo e Vita, Uomo e Chiesa, comprende pure lo stesso numero di lettere. Il nome volgare del Salvatore, Gesù, consta lui pure di sei lettere. Quanto al suo nome ineffabile esso assomma, in base al computo delle lettere prese una a una, a ventiquattro, e Cristo Figlio a dodici. Ciò che vi è di ineffabile nel Cristo è di trenta lettere, prendendo similmente una ad una le lettere che compongono il nome volgare. Infatti il nome Cristo è di otto lettere: la prima è di tre lettere, la seconda di due, la terza di due, la quarta di quattro, la quinta di cinque, la sesta di tre, la settima di due e l’ottava di tre. Pertanto per i Marcosiani ciò che vi è di ineffabile nel Cristo è di trenta lettere. E’ per questo motivo secondo loro ch’Egli disse: « Io sono l’alpha e l’omega » additando la colomba [περιστερά], che ha questo stesso numero, cioè 801.


 

I Marcosiani modificano i nomi delle lettere in base alle necessità della loro dottrina. Grazie a queste modifiche arbitrarie, si arriva sempre al numero desiderato!


 

51. Ecco ora come avvenne la nascita ineffabile di Gesù [Іησοϋς]. Dalla prima Tetrade, madre di Tutto, sortì, come una figlia, la seconda Tetrade; da questa venne l’Ottava, da cui poi la Decade, in tal modo venne a nascere il numero diciotto. La decade dunque, essendosi unita all’Ottava e avendola moltiplicata per dieci, produsse il numero ottanta; moltiplicando ancora per dieci quest’ultimo numero, partorì il numero ottocento, cosicchè il numero totale rappresentato dalle lettere, partito dall’Ottava verso la Decade, è 888. L’alfabeto greco contiene otto unità, otto decine e otto centinaia, che assommano a 888, cioè al nome Gesù. Se Gesù è detto alpha e omega è per dimostrare che è nato da tutti questi numeri.


 

52. Quanto alla creazione di Gesù, ecco ciò che ne dice Marco: il Gesù terreno è stato creato da potenze emanate dalla seconda Tetrade; l’angelo Gabriele ha fatto funzioni di Verbo, lo Spirito Santo di Vita, la Virtù dell’Altissimo di Uomo e la Vergine di Chiesa. Così, secondo Marco, venne concepito l’uomo nato attraverso Maria in base al progetto divino. Quando giunse all’acqua colui che era salito in alto completando il numero dodici - colui che contiene i semi di tutti coloro che sono stati seminati assieme a lui e sono ascesi e discesi con lui -, scese in Gesù sotto forma di colomba. Questa Virtù discesa su Gesù, dice Marco, è seme della Plenitudine e contiene in sé il Padre, il Figlio e la potenza innominabile del Silenzio conosciuta grazie a lui, e tutti quanti gli eoni. E’ questo spirito risiedente in Gesù che fece udire la sua voce con la bocca del Figlio, che si è dichiarata figlio dell’Uomo, ha manifestato il Padre ed è scesa in Gesù per fare tutt’uno con Lui. E’ quel Salvatore, affermano i Marcosiani, che in ossequio al progetto divino ha sconfitto la morte e rivelato che il Padre è Gesù Cristo. Quest’ultimo è, dunque, secondo Marco, il nome dell’uomo creato in virtù del progetto divino, e quest’uomo è stato dato per essere l’immagine perfetta e la forma dell’Uomo che sarebbe disceso in lui. Quando Gesù ricevette quest’Uomo, venne a contenere anche il Verbo, il Padre, l’ineffabile, il Silenzio, la Verità, la Chiesa e la Vita.


 

53. Tutti gli uomini dotati di buon senso vedranno chiaramente, spero, che queste dottrine sono assurde e distanti da ogni teologia, provenendo dalle fantasie degli Astrologi e dall’aritmetica dei Pitagorici, come potrà convincersene chiunque ama la conoscenza, andando a rileggere l’esposizione che ho fatto in precedenza di quegli insegnamenti [Philosophumèna, I e IV]. Tuttavia, per mostrare più chiaramente ancora che i Marcosiani non seguono Cristo ma Pitagora, voglio descrivere anche, per quanto ciò sia fattibile in un compendio, le dottrine che essi hanno tratto da quel filosofo circa i numeri e i moti celesti. Secondo i Marcosiani infatti questo universo deve la sua origine alla monade e alla diade. Contando prima dall’unità al quattro, essi concepiscono la decade [1+2+3+4=10]. La diade a sua volta, essendosi spinta fino al sei, come due, quattro, sei, ha generato la dozzina [2+4+6=12]. Contando parallelamente da due a dieci, ci si palesa la trentina, in cui è compreso il numero otto, dieci e dodici [2+4+6+8+10=30]. [paragrafo sconnesso] La dozzina, che ha come componente il numero notevole [6] è, per ciò stesso, detta Pathos dai Marcosiani. E siccome, a causa di questo fatto, la Caduta è avvenuta attorno al numero dodici, la pecorella [Saggezza] ha smarrito la retta via e si è perduta. La stessa perdita si è avuta nella Decade; i Marcosiani riferiscono ad essa la parabola della dracma persa da una donna che dopo aver acceso un lume si mette alla ricerca, e quella dell’unica pecorella smarrita. Quanto alla parabola delle 99 pecorelle essi la spiegano, grazie ai numeri addizionati assieme, fantasiosamente, affermando che undici moltiplicato nove fa novantanove e perciò, pretendono, si dice amen [αμήν], perché contiene il numero 99. Con la lettera numerale eta fanno lo stesso, poiché dicono che è un’Ottava in quanto comprende la lettera vau che nell’alfabeto occupa l’ottava posizione; infine, contando i numeri rappresentati dalle lettere fino alla eta, con esclusione della vau, e sommandoli tra loro, ottengono il numero trenta. Se infatti si sommano i numeri rappresentati dalle lettere numerali dall’alpha all’eta, e togliendo il numero notevole [6], si avrà trenta. Siccome il numero trenta è debitore della sua unità alle tre potenze [8+10+12], esso ha dato, ripetendosi tre volte, il numero novanta. La stessa triade, ripetendosi tre volte, ha generato il numero nove. Questi numeri, sia che si riuniscano in uno solo per formare la trentina, sia che si sopprima la dodicesima unità per poter fare undici, portano sempre a nove il numero dieci. Avviluppando questi numeri gli uni con gli altri e moltiplicandoli per dieci, essi ottengono il numero novantanove. Il dodicesimo eone [Saggezza], avendo lasciato gli undici eoni che stanno in alto e avendo defezionato, discese nel mondo sublunare: anche ciò, affermano i Marcosiani, si accorda con le lettere. E’ quello che la forma delle lettere ci insegna. Infatti l’undicesima lettera è lambda, che rappresenta il numero trenta, e lambda è quindi analogico all’ordinamento celeste. Se infatti si sommano i numeri rappresentati da ognuna di queste lettere dall’alpha al lambda, lasciando da parte il segno del numero sei, si ottiene per somme successive il numero novantanove [1+2+3+4+5+7+8+9+10+20+30 = 99]. Lambda, posta all’undicesimo grado, scende dunque quaggiù alla ricerca del suo analogo, per ripristinare il numero dodici; alfine lo trova e completa il numero. E’ ciò che ci mostra con chiarezza la forma stessa di questa lettera. Infatti Λ (lambda), giunto, se così si può dire, per cercare il suo analogo e avendolo trovato, poi innalzato al cielo, prende il posto della dodicesima lettera, Μ (mi), che è composta da due lambda (ΛΛ). Ecco perché i Marcosiani tralasciano, grazie alla Gnosi, il numero novantanove, cioè il vuoto, simbolo della mano sinistra, e tendono all’unità, che, aggiunta al numero novantanove, permette di porsi sul lato destro.


 

54. Secondo i Marcosiani, i quattro elementi, il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra, sono stati formati innanzitutto con la mediazione della Madre ed emanati a immagine della Tetrade celeste; aggiungendo a tali elementi le loro attività, cioè il caldo, il freddo, l’umido e il secco, i Marcosiani ritengono di poter offrire un’immagine esatta dell’Ottava. Inoltre essi annoverano dieci potenze: sette corpi di forma circolare che chiamano cieli; inoltre il cerchio che li contiene e a cui danno il nome di ottavo cielo; infine, il sole e la luna. Questi dieci esseri sono, secondo i Marcosiani, immagine della Decade invisibile emessa dal verbo e dalla Vita. Quanto alla Dodecade, essa è rappresentata dal cerchio zodiacale. Infatti, dicono i Marcosiani, questi dodici segni rappresentano verosimilmente la figlia dell’Uomo e della Chiesa, la Dodecade. Il cielo più elevato [l’ottavo] è stato aggiunto e unito all’universo per fungere da freno al suo movimento che è molto veloce; tale cielo, con la sua massa, appesantisce l’universo e con la sua propria lentezza, tempera la velocità di questo, cosicchè il moto rivoluzionario da segno a segno necessita di trent’anni per svolgersi; pertanto questo ottavo cielo è, per i Marcosiani, l’immagine di quel Limite che circonda la loro famosa Madre dai trenta nomi [Plenitudine]. A sua volta la luna, che compie un giro completo del cielo in trenta giorni, rappresenta, a mezzo di questo numero, il numero degli eoni. Il sole, che impiega dodici mesi per compiere una rivoluzione completa e tornare al punto di partenza da cui è partito per compiere la sua rivoluzione, ci rappresenta chiaramente la Dodecade. Gli stessi giorni, grazie alle loro dodici ore, rappresentano la Dodecade invisibile. La stessa fascia zodiacale si divide in trecentosessanta gradi ed ogni segno comprende trenta gradi. Così dunque, secondo i Marcosiani, lo Zodiaco stesso offre l’immagine della stretta relazione tra dodici e trenta. La terra, dicono ancora i Marconiti, è ugualmente divisa in dodici regioni climateriche; in ogni regione, essa riceve verticalmente dai cieli una virtù particolare a questo clima e partorisce dei figli della stessa natura della potenza che invia quaggiù la sua emanazione. Così la terra, anch’essa, è un’immagine della dodecade superiore.


 

55. I Marconiti dicono ancora che il Demiurgo ha voluto imitare la natura infinita, eterna, estranea ad ogni limite e tempo, dell’Ottava superiore, ma che non ha potuto riprodurne la stabilità e la perpetuità, poiché lui stesso era il prodotto di una caduta. Così, per approssimarsi all’eternità dell’Ottava, creò dei tempi, dei momenti, delle serie innumerevoli di anni, immaginando di imitare, con questo assommarsi di temporalità, l’infinitezza di quella. A quel punto, dicono i Marconiti, venne abbandonato da Verità e sua compagna divenne Menzogna. E’ per questo che quando i tempi si compiranno la sua opera avrà fine.


 

56. Questo è dunque ciò che insegnano sulla creazione e sull’universo gli eretici usciti dalla scuola di Valentino; essi gareggiano tra loro per la stranezza delle dottrine; ai loro occhi è un segno di vivacità e innovazione escogitare argomenti grandiosi e meravigliosi. Essi pensano che ogni brano della Bibbia si accorda con il loro simbolismo numerale, e accusano Mosè e i profeti di accennare allegoricamente agli eoni e ai loro numeri. Non ho ritenuto di dover spiegare simili baggianate incoerenti, dal momento che il beato vescovo Ireneo ha già confutato con vigore e minuzia queste dottrine. Peraltro è proprio da Ireneo che abbiamo tratto le invenzioni di questi eretici. Abbiamo dimostrato che è dalla filosofia di Pitagora e dalla vana scienza astrologica che essi hanno derivato dottrine che poi hanno fatto proprie, accusando poi il Cristo di esserne il primo autore. Penso di aver mostrato a sufficienza quanto insulsi siano i loro insegnamenti e di aver mostrato con chiarezza che i filosofi pagani sono stati i veri maestri di Marco e Colarbase, successori di Valentino nella scuola.

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