La Mistica

dei Carmelitani Scalzi

Antonio D'Alonzo


 

 

1. Il Carmelo ed il culto mariano.


La tradizione ha sempre messo in relazione il profeta Elia con il monte Carmelo, una catena montuosa che si estende dal golfo di Haifa fino alla pianura di Esdrelon, in Palestina. Nella seconda metà del 1100, alcuni reduci dalle crociate, si riuniscono sul Carmelo per iniziare una vita contemplativa, dedita alle preghiere ed all’isolamento. Alberto Avogrado, patriarca di Gerusalemme, riunisce questi reduci nelle comunità e fornisce le Regole del nuovo Ordine. Nel 1200, l’Ordine emigra in Europa, in seguito all’occupazione musulmana della Terra Santa. Subito, l’Ordine si caratterizza per la forte impronta mariana. Il nome della confraternita è Ordine di Santa Maria del monte Carmelo. L’Ordine originario si fondava, oltre alla devozione mariana, sulla solitudine contemplativa, sulla preghiera, sulla povertà, sul lavoro. Intanto, l’Ordine da eremita si trasforma in mendicante. Il primo ottobre del 1247, Papa Innocenzo IV pubblica la Regola Modificata dei Carmelitani.

Nel 1562, Teresa d’Ávila da avvio alla riforma, fondando il primo monastero di Carmelitane “Scalze” a San Giuseppe, con cui si propone di restaurare la primitiva rigidità. Conosce il giovane Giovanni della Croce e lo convince ad estendere la riforma anche ai frati. Nel 1568, a Duralo (Avila), sorge il primo convento di frati Carmelitani Scalzi. È restaurata, così, la Regola originaria suggellata dalla penitenza, il ritiro e la perenne orazione.




2. I fondatori dell’ordine dei Carmelitani Scalzi: Teresa d’Ávila e Giovanni della Croce.


Teresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582) nasce ad Avila. Già nella prima infanzia, manifesta un certo tormento spirituale. Sogna di andare a combattere i Mori e, contemporaneamente, è attratta dalle vite dei santi, instancabile lettrice d’agiografie. A venti anni, fugge da casa, per entrare in un convento Carmelitano. Subito insoddisfatta dalle “mollezze” dell’Ordine, decide di dare inizio alla riforma carmelitana, fondando i primi conventi di Carmelitane “Scalze”, in cui è restaurata l’originaria durezza dell’ascesi e della clausura. Come sovente accade, le autorità ecclesiastiche contrastano le sue iniziative, finché arriva il benestare papale.
Teresa estese la sua riforma anche ai frati, con l’aiuto del giovane Giovanni della Croce, incontrato a Medina. Nel 1568 sono inaugurati i primi conventi dei Carmelitani “Scalzi”, in cui è radicalizzata la regola monastica e cenobitica, incentrata sulla meditazione e sulla preghiera.

La spiritualità di Teresa d’Ávila risente dell’instabilità psichica, che la caratterizza fin dall’infanzia. Nel 1538, una gravissima malattia la rende quasi invalida. Durante la convalescenza si avvicina alla meditazione interiore del francescano Francisco de Osuna. Inizia così a gettare le fondamenta del suo castello interiore. Sempre malata, sempre tormentata, Teresa attribuisce molta importanza alla malattia fisica ed al dolore psichico come fondamento del cammino spirituale verso Cristo. Si tratta di quella concezione del dolore come gestazione introspettiva, gravidanza spirituale, che troviamo anche in Nietzsche, ma non solo. Quasi tutte le civiltà c.d. “primitive” presentano dei riti di passaggio che comportano gravi sofferenze psicofisiche, prove atroci, correlate da scarificazioni, ferite rituali, incisioni, mutilazioni (molte delle quali sugli organi sessuali). In queste culture è presente l’idea che il dolore sottrae l’iniziando alla Natura, favorendone l’ingresso comunitario. In altre parole, si diventa individui- uomini e donne- attraverso il dolore. Qualcosa di simile deve essere stato all’origine anche della spiritualità teresiana.

Infatti, il secondo collante del sistema teresiano è la meditazione cristologia, focalizzata, ovviamente, sulla Passione. Concentrandosi sul Calvario del Redentore, la santa ottiene così lo scopo di sublimare il dolore, la sofferenza, il negativo. Attraverso la formula “Quanto devi aver sofferto per il nostro amore, mio buon Gesù…”, la passionaria Carmelitana riesce a rimuovere la solitudine, la malattia, il travaglio psicofisico assunto a conditio sine qua non della “mistica” delle Scalze. Vengono in mente le pagine nietzscheane sul prete-asceta della Genealogia della Morale: se il rovello ed il tormento sono le chiavi per ottenere la beatitudine, si finisce per invocare più dolore, più sofferenza- in altre parole- più “santità”…

Il terzo fattore fondamentale della mistica teresiana è lo psicologismo. Se il dolore e la sofferenza sono le premesse della “santità”- il tema della Passione, l’oggetto su cui dirigere le proprie pulsioni dissimulate- il primato dello psicologico è il corollario finale. L’enorme importanza che con Teresa assume la “lettura” dell’anima comporta necessariamente una regressione dell’elemento spirituale, intellettuale (dove per “intelletto” si deve intendere l’intelletto attivo aristotelico, il noús plotiniano, l’Atman upanishadico). Prioritario diventa l’elemento passionale, sentimentale, le mercedes che consentono all’anima innamorata d’incontrare Dio. Ovviamente, con la sola dialettica dell’amore non vi può essere vera fusione, autentica unione con l’Uno (si decida di chiamarlo “Dio” o, più metafisicamente, “Spirito dell’Universo”).

Il capolavoro di Teresa d’Ávila, il Castello Interiore, elabora metodicamente questo cammino personale fatto di estasi, rapimenti, ebbrezze pseudo-spirituali. Il “Castello” è il simbolo dell’anima (introdotto specialmente nella mistica tedesca) che deve attraversare sette morodas, o stanze, disposte concentricamente. Le prime tre dimore riguardano il dominio ascetico. La quarta concerne l’”orazione di quiete”, la preghiera interiore. Seguono, quindi, la quinta (l’”unione”), la sesta (“il fidanzamento”), la settima (“il matrimonio spirituale” con Dio). L’ascesa è prevalentemente psichica o sentimentale, più che spirituale, correlata a numerosi stati d’animo, a sensazioni di beatitudine e a “grazie” soprannaturali che accompagnano il cammino.

Giovanni della Croce (1542-1591), consigliato ed indirizzato da Teresa d’Ávila, è stato il fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Più di quanto fosse avvenuto per quest’ultima, Giovanni attirò gli inevitabili strali dei Carmelitani Calzati, determinati fino all’ultimo ad ostacolare il suo progetto. Giovanni fu rapito ed imprigionato, ma riuscì a fuggire e a ripararsi presso un convento di Scalze; arrivato, infine, il nullaosta, Giovanni riuscì a portare a termine la sua riforma.
Giovanni della Croce è un mistico ed un pensatore ricco di sfaccettature e di ambivalenze. Da una parte è profondamente intriso della teologia aristotelico-tomistica, appresa nell’adolescenza dai gesuiti; dall’altra, è molto vicino spiritualmente alla mistica renano-fiamminga (dell’essenza). L’influsso aristotelico-tomistico lo conduce a sviluppare una serie di dicotomie irriducibili, tra naturale/soprannaturale, soggetto/Dio, ecc. La vicinanza con il pensiero eckhartiano, del resto, lo conduce, in certi momenti, a paventare il carattere propedeutico e intermediario del cristianesimo e della religione stessa. Da qui le controversie teologiche sul suo pensiero. Per alcuni commentatori cristiani, Giovanni non si distaccò mai dal messaggio evangelico e la sua dottrina è profondamente cristiana. Per gli orientalisti, invece, egli può essere considerato il “Patañjali occidentale” (definizione di Siddhesvarananda).

Quattro sono le opere fondamentali, che formano un tutto. Nella Salita del monte Carmelo, è presentata l’azione di progressivo spogliamento dell’anima in cammino verso Dio; nella Notte oscura, la purificazione, attraverso l’annichilimento, dei sensi e dello spirito durante la salita; nel Cantico Spirituale e nella Fiamma d’amor viva, l’anima, giunta al culmine dell’unione amorosa, è gratificata dalle “nozze mistiche” con Dio.

La “notte” sanjuanista riprende e ripropone il tema del “niente”del “povero” eckhartiano. L’annichilimento della spoliazione purificatoria della salita conduce in quella nada (“nulla”), che equivale specularmente al distacco del “niente sapere, niente volere, niente avere”. Anche per Giovanni come per Eckhart, il Nulla è il Tutto.
Tuttavia, a differenza del maestro domenicano, Giovanni non si libera mai completamente dei retaggi scolastici dell’adolescenza. Da una parte il santo spagnolo sembra spingere verso il trascendimento di qualunque forma e contenuto positivo; dall’altra mantiene viva la mentalità sistematica, forgiata da dicotomie irresolubili. In alcuni passaggi il cristianesimo diventa un mezzo, un gradino per arrivare al “niente sapere”, senza tuttavia giungere mai a postulare una ridefinizione antropologica della figura di Cristo, né, tanto meno, osare un oltrepassamento della dottrina cristologica.
Questa remora, questa sorta di ritrosia nell’audacia speculativa, purtroppo, ha finito per influire pesantemente sulla profondità del pensiero sanjuanista; un pensiero che sembra come arrestarsi e tornare indietro nel momento stesso in cui intravede l’azzurro profondo delle vette immacolate.




3. Le Carmelitane Scalze.



La “mistica” carmelitana si è sviluppata prevalentemente tra le monache, giacché l’elaborazione teresiana della via amoris ha subito trovato un fertile brodo di coltura nella psicologia femminile. La sublimazione imperfetta delle passioni e delle compulsioni affettive nei giovani animi femminili, ha trovato la sua trasposizione ideale nell’icona classica del Redentore, dalle caratteristiche fisiche accattivanti. Il volto di Gesù, reso levigato e attraente dalla pittura del tempo, dipinto sovente con tratti scarsamente semitici e molto nordici (capelli biondi/occhi azzurri/viso allungato; o anche capelli castani e fluenti/occhi chiari/zigomi alti, ecc.), sembra perfetto per suggellare ed accumulare le proiezioni delle compulsioni femminili. La bellezza fisica che irradia dalle icone del Salvatore, è in fondo una languida consolazione compensatoria per delle giovani donne che, attraverso il voto di castità, si apprestano a perpetuare la rinuncia al Mondo, al ruolo di mogli e di madri. In questo senso la mistica “sponsale” si configurava come una sorta di trasposizione “spirituale” per quello che era negato sul piano mondano; a questo si deve aggiungere come- all’inizio del Cinquecento- molte monache morissero giovanissime di tubercolosi. Una vita consumata tra sofferenze fisiche, clausura, rinunce, poteva essere giustificata soltanto da un fine altissimo. Mentre un mistico, dalla profonda preparazione teologica e filosofica, come Meister Eckhart, poteva farsi beffe dell’ascesi, o comunque subordinarla alla necessità del distacco, queste giovani donne, per lo più sprovviste della necessaria istruzione, riuscivano a farsi forza soltanto con la dedizione appassionata al Cristo, all’idea del sacrificio per il dio-uomo bello e buono.

Da questo quadro sconsolante, si eleva, almeno in parte, la figura di Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607). Maria Maddalena, dalla fragile salute, si avvicina in certi punti alla speculazione di Taulero; quindi sono da ritenersi fondate quelle ipotesi che postulano una sua conoscenza della mistica renano-fiamminga. Anche la carmelitana fiorentina ricade nel tortuoso sentiero delle estasi e delle visioni, ma la sua insistenza sul “nudo patire”, sull’annichilimento anzitutto spirituale, piuttosto che corporale, richiama emblematicamente le “Notti” tauleriane. Non solo. In certi punti della sua opera, Maria Maddalena riprende anche il celebre passo eckhartiano del “nulla sapere, nulla volere, nulla sapere”. In altri ancora, si richiama al “non-amore”, all’amore “senza perché”, postulato da Margherita Porete (il cui libro, Specchio delle anime semplici, doveva circolare nella Firenze cinquecentesca).
Per Maria Maddalena, come per la Porete, il sommo dell’amore è un amore morto che non cerca nulla, perché cercare qualcosa significherebbe essere eterogenei ed estrinseci all’oggetto. La negazione completa dell’amore comporta, quindi, la realizzazione totale dell’amore, perché dialetticamente, negare l’oggettività delle determinazioni (“ogni determinazione è una negazione”, scrive Spinosa), significa cogliere l’Intero, il Tutto. In altre parole, l’amore come anelito è sempre desiderio-di-qualche-cosa, quindi esclusione di ciò che rimane estrinseco all’oggetto desiderato. Per amare il Tutto, si deve perciò rinunciare alle proiezioni del desiderio e trasformare, l’anima stessa nell’Amore. L’anima non può così desiderare ed escludere nulla di determinato, perché dialetticamente essa è il Nulla. Quindi essa è il Tutto, l’Amore divino, universale.

Teresa Margherita del Cuore di Gesù- morta nel 1770 di peritonite a soli 22 anni- prosegue il percorso “classico” della spiritualità carmelitana: è necessario abbandonarsi completamente a Cristo, seguendo la via del Calvario, agendo sempre con amore ed umiltà. Teresa Margherita realizzò concretamente i suoi propositi, prestando soccorso ed assistenza alle sorelle inferme.

Arriviamo alla vicenda di Teresa di Lisieux (1872-1897), passata alle cronache per essere rimasta curiosamente coinvolta nell’”affare Taxil”. Emblematico come Teresa, durante il suo viaggio a Roma da papa Leone XIII, si fermi a Firenze per pregare sulla tomba di Maria Maddalena de’Pazzi. Teresa, morta di tubercolosi a 25 anni, durante la sua brevissima esistenza fu tormentata dal dubbio e dalla disperazione, alternando momenti di grande slancio emotivo ad altri in cui arrivò a sfiorare il suicidio. L’epoca in cui visse Teresa- la fine dell’Ottocento- è caratterizzata dall’affermarsi del materialismo storico e dalle teorie evoluzionistiche. Il primato culturale cattolico è destinato a dissolversi, sotto i colpi mortali degli epigoni della filosofia dei Lumi. La cristianità cattolica non vive un gran momento. Anche se ormai ha abbandonato le vecchie abitudini inquisitorie, l’uso di “purificare” nel fuoco l’eterodossia dei mistici e delle streghe, lo “spirito” cattolico rimane vigile. Niente di più scontato del continuare a sentire l’odore dello zolfo in casa d’altri.

Quando Leo Taxil inventa la storia del Palladismo e della conversione al Cattolicesimo della Gran Sovrana Diana Vaughan, a molti cattolici non pare vero di vedere finalmente confermati i loro pregiudizi antimassonici. Ricordiamo brevemente la vicenda. Il massone Leo Taxil rivela in un libro le strettissime relazioni tra la Massoneria ed il Satanismo. In particolare è citato un movimento- denominato appunto “Palladismo”- in cui i confini fra tradizione libero-muratoria e dottrina satanista, appaiono alquanto labili. Il Palladismo si configura agli occhi dei cattolici come una sorta di “Massoneria Satanista”. La Gran Sovrana del Palladismo è indicata nella figura di una certa Diana Vaughan, dietro cui si nasconde, in realtà, sotto “mentite spoglie”, lo stesso Taxil. La Vaughan, alias Taxil, annuncia la conversione al cattolicesimo e abiura pubblicamente il movimento, da “lei” stessa diretto. Tutto il mondo cattolico cade nel tranello, compreso papa Leone XIII. Teresa scrive alla Vaughan/Taxil, rallegrandosi per la conversione ed inviando la sua foto di scena nei panni di Giovanna d’Arco. Teresa, completamente irretita, arriva anche a comporre una commedia teatrale sulla vicenda, presentando diavoli, angeli, forche, fiamme, ecc. il 19 aprile 1897, presso la Société de Géographie di Parigi, Taxil svela pubblicamente l’inganno e dichiara di essersi preso gioco della credulità cattolica. Taxil, per dileggiare il mondo cattolico, mostra al pubblico ed alla stampa la foto di Teresa nei panni di Giovanna d’Arco ed il poemetto composto dalla stessa santa. Teresa, cinque mesi dopo, scossa dalla vicenda, si ammala gravemente e muore. L’opera di Teresa, il suo remissivo sentimentalismo religioso è stato ripreso da due emule Carmelitane, Celine e Agnese, fautrici della c.d. “infanzia spirituale” e della “piccola via”; in breve, un insegnamento teso a postulare il ritorno allo stato d’innocenza e purezza infantile.
Per concludere con il caso “Vaughan”, non si deve dimenticare che, ancora oggi, alcuni eminenti studiosi di provata fede cattolica, mettono in dubbio la dinamica degli avvenimenti e la veridicità dell’impostura ordita da Taxil.

La nostra carrellata sul monachesimo Carmelitano non può chiudersi senza citare anche Elisabetta della Trinità e Edith Stein. Elisabetta (1880-1906), continuò la tradizione, inaugurata dalla santa aviliana, dell’annichilimento completo nell’icona del Crocefisso, fino a perdere se stessa nell’amore di Dio.
Edith Stein, filosofa, prestigiosa studiosa di Husserl, trovò nell’insegnamento di Teresa d’Ávila e Giovanni della Croce il compimento della fenomenologia.
Ebrea, abbandonato l’ateismo per l’Ordine Carmelitano, scomparve ad Auschwitz nel 1942.




4. I Carmelitani Scalzi.



I teologi carmelitani si applicarono invano per organizzare e strutturare sistematicamente gli straordinari insegnamenti teresiani e sanjuanisti. Il fallimento dell’operazione testimonia ancora una volta come lo Spirito non si lasci facilmente ingabbiare ed irretire nelle maglie della razionalità metodica e sistematica; la difficoltà maggiore che si presentò a livello spirituale, concerneva la distinzione tra l’ambito “naturale” e quello “soprannaturale”, autentico ginepraio teologico in cui si versarono i classici fiumi d’inchiostro.

Si devono ricordare quattro nomi: Giovanni di Gesù Maria (1564-1615), Tommaso di Gesù (1564-1627), Giuseppe di Gesù Maria (1562-1628), Filippo della Santissima Trinità (1603-1671).

I quattro teologi carmelitani si persero presto nel tentativo di catalogare i casi in cui si manifestano le “grazie” mistiche, dove si distingue l’influsso “diretto” di Dio da quello “indiretto”, o le dinamiche psichiche inerenti alle “notti” sanjuaniste. Per non parlare dei maldestri tentativi di trattare con i metodi delle scienze esatte, fenomeni sfuggenti ed aleatori come le estasi visionarie.

Nel 1720, Giuseppe dello Spirito Santo (1667-1736) pubblica, in sei volumi, il suo Corso di teologia mistica- tentativo ormai inattuale di dare forma sistematica alla mistica dei predecessori- mentre sta cominciando a farsi strada nella cultura europea il pensiero dei Lumi e l’esperienza spirituale è declassata a sentimento ed irrazionalismo.

Tra i Carmelitani Calzati, si deve ricordare soprattutto Giovanni della Croce dei Calzati (Giovanni di Saint-Simon, 1575-1636), fautore, senza dubbio, del più autorevole tentativo di estendere l’antica regola anche ai Calzati, restaurando, così, la purezza spirituale originaria.



Bibliografia essenziale


- Y. Pellé-Douël, Giovanni della Croce e la notte mistica, San Paolo.
- D. Barsotti, La teologia spirituale di san Giovanni della Croce, Rusconi
- L. Cognet, Dictionnaire de Spiritualità.
M. Vannini, Il volto del Dio nascosto, Mondadori.

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