Julius Evola

Le Radici del Male Europeo

 

Abbiamo detto che il mondo moderno è ormai giunto ad un punto dove è inutile farsi illusioni sull'efficacia di una qualsiasi reazione che non parta da un profondo rivolgimento spirituale. Liberarsi dal male che ci corrode non si può che con una negazione totale, con uno slancio spirituale che faccia di noi veramente degli esseri nuovi, riaprendoci la possibilità di cogliere un mondo nuovo, di respirare una libertà nuova: dovesse anche crollare tutto ciò di cui l'Occidente trae il suo vano orgoglio.

Nella consapevolezza che il nostro mondo è un mondo di r o v i n e, dobbiamo spingerci di nuovo verso quei valori, che ci consentano di riconoscere in modo inequivocabile la causa di tale rovina.

La prima radice della decadenza europea è il «socialismo», l'anti-gerarchia.

Le forme fondamentali, sviluppatesi da questa radice, sono:

La regressione delle caste.

L'insorgere delle scienza e della filosofia positive.

La tecnica e l'illusione della potenza meccanica.

Il nuovo mito romantico e attivistico.

Queste sono le quattro principali radici della decadenza europea, che noi adesso considereremo ad una ad una per poi puntualmente opporvi i nostri valori gerarchici.

Così saranno dati i tratti fondamentali di un'altra visione del mondo e della vita, che per noi deve valere come una forza segreta e come l'anima della nostra battaglia.

La regressione delle caste. L'oro e il lavoro

Abbiamo già accennato al fatto che, se in modo del tutto generale si dovesse formulare una legge che ci dia il «senso della storia», per i tempi ultimi, non potremmo parlare di progresso ma, semmai, di involuzione.

A tale riguardo vi è un processo che si impone alla considerazione di ognuno nel modo più oggettivo e manifesto: il processo della regressione delle caste. Come «senso della storia», a partire dall'epoca preistorica, si ha esattamente il decadimento progressivo dall'una all'altra delle quattro grandi caste - casta «solare» (regale-sacrale), nobiltà guerriera, borghesia (mercanti) e servi - in cui, nelle civiltà tradizionali, e particolarmente nell'India ariana, la differenziazione qualitativa delle possibilità umane trovò il suo riflesso.

In un primo tempo assistiamo infatti al tramonto dell'epoca della divinità regale. I capi, che sono esseri «divini», i capi che riuniscono completamente in sé i due poteri, l'autorità regale e quella pontificale, appartengono ad un remoto, quasi mitico, passato. Attraverso un progressivo alterarsi della forza nordico-aria, formatrice di civiltà, si è compiuto questo primo crollo. Nell'ideale tedesco del Sacro Romano Impero noi abbiamo già riconosciuta l'ultima eco di questa tradizione, di questo livello «solare».

Scomparso l'apice, l'autorità passa al livello immediatamente inferiore: siamo alla casta dei guerrieri. Si tratta di monarchi che ora sono semplicemente dei capi militari, dei signori di giustizia temporale, sovrani assoluti politici. Sussiste talvolta la formula del «diritto divino», ma come una mera reminiscenza priva di contenuti. Dietro ad istituzioni che solo formalmente conservavano i tratti dell'antica costituzione aristocratico-sacrale, spesso già nell'antichità non si ebbero più che sovrani di questo tipo. In ogni caso, dopo la caduta dell'unità ecumenica medievale, questo fenomeno si manifesta in modo decisivo e definitivo.

Secondo crollo: l'aristocrazia decade, la cavalleria si estingue, le grandi monarchie europee si «nazionalizzano» e tramontano - attraverso le rivoluzioni e le «costituzioni», quando non siano semplicemente soppiantate da regimi di tipo diverso (repubblica, federazione), si trasformano nella già citata vuota sopravvivenza, soggetta alla «volontà» della «nazione». Nelle democrazie parlamentari, repubblicane o nazionali, il costituirsi delle oligarchie capitalistiche esprime il fatale passaggio del l'autorità e della potenza della seconda all'equivalente moderno della terza casta: dal guerriero al mercante. Al posto dei principi virili della fedeltà e dell'onore subentra ora la dottrina del «contatto sociale». Il vincolo sociale è ora utilitaristico ed economico: è il contratto sulla base della convenienza e dell'interesse dei singoli. In questo modo tale vincolo passa necessariamente dal personale all'impersonale. L'oro fa da tramite, e chi se ne impadronisce e sa moltiplicarlo (capitalismo, industrialismo) giunge virtualmente anche alla presa del potere. L'aristocrazia cede il posto alla plutocrazia; il guerriero al banchiere, all'ebreo e all'industriale. Il traffico con la moneta e con l'interesse, prima confinato nel ghetto, diventa la gloria e l'apice dell'epoca ultima. La forza nascosta del socialismo, dell'antigerarchia, comincia qui a rivelare visibilmente la sua potenza.

La crisi della società borghese, la rivolta proletaria contro il capitalismo, il manifesto della «Terza Internazionale» e il correlativo lento sollevarsi e organizzarsi dei gruppi e delle masse in forme puramente collettive e meccanizzate — nei quadri di una nuova «civiltà del lavoro» — ci indicano infine il terzo crollo, per cui l'autorità tende a passare all'ultima delle caste tradizionali, a quella dello schiavo da fatica e dell'uomo-massa: con conseguente riduzione di ogni orizzonte e valore al piano della materia e del numero.

Se la spiritualità extraumana e la «gloria» caratterizzarono il periodo «solare», l'eroismo, la fedeltà e l'onore quello dei guerrieri, l'oro quello dei guerrieri, l'oro quello dei trafficanti e degli Ebrei - così all'avvento dei servi doveva far riscontro l'esaltazione appunto del principio degli schiavi: il lavoro che si innalza a religione. E l'odio dello schiavo va a proclamare sadisticamente: «Chi non lavora, non mangia», e la sua idiozia, glorificandosi, forma incensi sacrali con le esalazioni del sudore umano: «Il lavoro nobilita l'uomo», «Il lavoro è grandezza», «Il lavoro è dovere etico». Così si cala sul cadavere la pietra sepolcrale, e il ciclo dell'involuzione sembra compiersi definitivamente.

Nessun altro ideale offre il futuro ai sacerdoti del «progresso». Per oggi ancora dura la lotta fra l'ebreo, onnipotente signore dell'oro, e la rivolta dello schiavo; e quella «civiltà», di cui i contemporanei sono così orgogliosi, sovrasta un ingranaggio mostruoso, mosso da forze brute ed impersonali: l'oro, il capitale e la macchina.

I vincoli di dipendenza, lungi dall'allentarsi, si sono nuovamente rassodati. Ma accanto alla forza non procede più l'autorità, accanto all'obbedienza non più il riconoscimento, accanto al grado non più la superiorità. Il signore non è più tale perché è s i g n o r e, sibbene perché è uno che ha più danaro, perché è uno che, pur non vedendo affatto oltre il piccolo orizzonte di una qualunque vita umana, domina le condizioni materiali della vita; mediante le quali gli è anche possibile di soggiogare o opprimere chi abbia un respiro infinitamente più potente che non il suo: la possibilità del più ignobile inganno e della più infame schiavitù. La potenza e il legame di dipendenza, spersonalizzandosi e meccanizzandosi, sono divenuti capitale e macchina. E così non è un paradosso: di schiavitù vera si può parlare seriamente soltanto o g g i, se ne può parlare soltanto presso alla organizzazione economico-meccanica occidentale, lungo quella direzione di abbrutimento, di cui la «libera America» sta dandoci il migliore esempio.

E forse dopo un breve ciclo di generazioni, debitamente e scientificamente educate alle norme del «servizio sociale», il senso dell'individualità sarà cancellato del tutto, e, con esso, l'ultimo residuo di coscienza necessario per sapere almeno di essere schiavi. E rimarrà forse quello stato di rinnovata innocenza che si differenzia da quello dell'Eden mitico per il fatto che il lavoro allora vi regnerà come universale e unico scopo dell'esistenza, - di cui parla Chigalev ne Gli ossessi di Dostojewskij: è l'ideale dei Soviet.

Una dipendenza senza più capi, una organizzazione indifferente rispetto ad ogni esigenza qualitativa- questo ideale «sociale» la forza bruta, impersonale, fatta di mera quantatitività, del danaro, lo realizza.

Abbiamo detto: senza più capi. Non ci si illuda, difatti. Ripetiamo che la razza dei Signori se non è già scomparsa, vi è vicina; e tutto procede in un crescendo di livellamento precipitato verso la vita più materiale e senza volto. Le cosidette classi «superiori» o «dirigenti» di oggi non sono tali che per ironia: i grandi capi dell'organizzazione finanziaria mondiale, così come i tecnici, gli industriali, i funzionari, ecc., non rappresentano nulla più che quei liberti, che i signori di un tempo delegavano al controllo dei servi e all'amministrazione dei loro beni. Uno stesso giogo li assoggetta alla immensa, cieca turba automatizzata degli operai e degli impiegati, e al disopra di essa non hanno respiro schiavi e liberti sorveglianti di schiavi - e, al disopra: nessuno - questa è la terribile verità dei «civilizzati»!

E come interiormente molto più angusta e dipendente e povera è la giornata senza tregua, febbricitante, satura di responsabilità dei signori dell'oro e della macchina, che non la giornata di un umile artigiano, altrettanto lo è quella delle classi «superiori» a cui l'oro non serve che per moltiplicare morbosamente la loro sete di «distrazione», di lusso, di voluttà o di guadagno ulteriore.

Nessuna traccia di Signori, in tutto ciò. E nell'assenza loro, nessun senso in tutta questa pseudo-organizzazione. Se si domanda un perché, una giustificazione ai milioni di reclusi fra le macchine e gli uffici, - di là dall'effìmera ebbrezza con cui essi cercano di scimmiottare la «signorilità» delle «classi superiori» - non si avrà nessuna risposta. Ma se si risale e lo si domanda ai «capi dell'economia», agli inventori, ai signori dell'acciaio, del carbone, del petrolio, dei popoli (non abbiamo visto che il problema politico oggi tende a ridursi a quello economico?), dell'oro - di nuovo nessuna risposta. I mezzi per la vita hanno dominato la vita, anzi l'hanno ridotta a loro mezzo. E così la grande oscurità irrompe sulle luci delle illusioni superbe dell'orgoglio occidentale; una oscurità che si esprime in un mito nuovissimo e mostruoso: quello del lavoro per il lavoro, del lavoro come scopo in sé, come valore intrinseco e dovere universale.

L'infinità degli uomini sulla terra deserta di luce, ridotti a pura quantità -soltanto a quantità - resi uguali nella identità materiale di parti dipendenti di un meccanismo lasciato a se stesso, inarrestabile che possa più nulla - ecco quale è la prospettiva che sta in fondo alla direzione economico-industrialistica che intona tutto l'Occidente.

E chi sente che questa è la morte della vita e l'avvento della bruta legge della materia, il trionfo di un fato tanto più spaventoso inquantoché non ha più persona, sente altresì che non vi è che un rimedio: spezzare il giogo semitico dell'oro, superare il feticcio della socialità e la legge dell'interdipendenza, restaurare i valori aristocratici, quei valori di qualità, di differenza e di eroismo, quel senso della rea Ita metafisica a cui oggi tutto va contro e che noi, pertanto, contro tutto affermiamo.

E perciò: se inteso come una rivolta contro la tirannide economica, contro lo stato di cose in cui non l'individuo, ma la quantità di oro comanda; in cui la preoccupazione per le condizioni materiali dell'esistenza corrode tutta l'esistenza; se inteso come la ricerca di un equilibrio economico, sulla base del quale abbiano modo di liberarsi e svilupparsi forme diverse di vita non più riducibili al piano materiale - se inteso a questa stregua, ma a questa soltanto, potremmo riconoscere persine a certe correnti estremistiche una funzione necessaria e un avvenire.

La causa maggiore della mancanza di una differenziazione qualitativa nella vita moderna consiste appunto nel fatto che la vita moderna è tale, da non lasciar più margine ad un genere di attività che non si valuti in termini di utilità pratica e di socialità. Il pregiudizio economico crea il livellamento; imponendosi, fra tutti uguali, inquantoché le differenze in funzione dell'oro e delle gerarchie meccanico-economiche non sono differenze: esse rientrano in un livello unico, in una qualità unica; di là da questo livello, preso nella totalità di tutte le sue possibili differenziazioni, bisognerebbe che esistessero altri livelli, che invece oggi non esistono: indipendenti dal primo ed ai quali il primo dovrebbe essere subordinato, e non viceversa, come è lo stato di fatto delle società contemporanee.

È per questo che quando l'ipertrofìa di un tale male in mostruosi trusts bancario-industriali si arroga il diritto di «imperialismo», noi, non sapendo piangere, non possiamo che ridere. E contrapporre freddamente l'idea che una rivoluzione radicale contro l'oro, il capitale, è il presupposto imprescindibile del vero Imperium. Passando attraverso all'istanza che serpeggia in fondo a tutte le ideologie rivoluzionarie quale sintomo di rivolta contro la schiavitù moderna, noi tuttavia la trascendiamo, constatando che essa stessa è pervasa dallo stesso male: essa stessa non vede che problemi economici e sociali, non chiede la liberazione dal giogo economico in nome di valori differenziati, metaeconomici e meta fisici - non perché le forze, svincolate dall'assillo economico, possano lavorare in profondità - ma invece solamente per una sistemazione egualitaria e ancor <<più socialistica», ritenuta migliore, dello stesso problema economico determinato dai bisogni puramente materiali ed utilitaristici delle masse. Donde, in tali tendenze, una diffidenza, una insofferenza e quasi un larvato risentimento, non diciamo per lo spirituale, ma già per lo stesso «intellettuale» ritenuto un «lusso»: di là dall'equilibrio economico, esse non hanno occhio per differenze non economiche — non le vedono e non le vogliono: con lo stesso spirito di intolleranza plebea ed egualitaria di schiavi in rivolta, che già si rivelò alla caduta dell'antica romanità.

In conclusione, con due armi bisogna lottare contro questa prima radice del male europeo. Sulla prima, non occorre insistere e fermarsi ancora: consiste nel creare una élite, nel mettere in rilievo coscienziosamente e tenacemente le nuove differenze, gli interessi, le qualità nuove dell'indifferenziata sostanza degli individui di oggi, così che si ridesti una aristocrazia, una razza di signori, di dominatori. Questo anzitutto.

In secondo luogo, è necessario un moto, una rivolta dal profondo che ci liberi dalla macchina, dalla dipendenza estrinseca, inorganica, automatica e violenta; che spezzi il giogo ebraico, economico-capitalistico; che irrida il dovere del lavoro imposto come legge universale e fine a sé; che ci liberi insomma, che apra un varco all'aria e alla luce -per, sulla base di questa libertà, non per violenza, non per dominio di bisogni e giochi di passioni, interessi ed ambizioni, ma per riconoscimento spontaneo - scaturito dal senso di valori e di forze trascendenti, da fedeltà verso il proprio modo di essere, qualunque esso sia, da consapevolezza di natura, di dignità e di qualità- ricostituire la gerarchia. Una gerarchla organica, diretta, effettiva: in ciò, più libera e più ferrea di qualsiasi altra.

Come non riconoscere, allora, che la realtà del passato è anche un mito profetico per un avvenire migliore? Il ritorno al sistema delle caste è il ritorno ad un sistema di verità, di giustizia e di «forma» in senso superiore.

Nella casta si ha l'ideale di una comunità di attività, di professione, di sangue, di eredità, di leggi, di doveri e di diritti, che corrispondono più precisamente a prestabiliti, tipici modi di essere, a manifestazioni organiche di nature congenialmente raffinate; in esso vi è, come presupposto, proprio la volontà di essere ciò che si è, la volontà di realizzare la propria natura e il proprio destino come qualità, mettendo a tacere le velleità individua-listiche ed arrivistiche, principi queste di ogni disordine e disorganizzazione; in esso vi è il superamento della uniformità quantitativa, della centralizzazione, della standardizzazione; in esso vi è il superamento della uniformità quantativa, della centralizzazione, della standardizzazione; in esso vi è la base per una gerarchia sociale che immediatamente riflette una gerar-chia dei modi di essere, dei valori e delle qualità, e che sale ordinata secondo gradi, dal materiale allo spirituale, dall'informe al formato, dal collettivo all'universale e al superindividuale.

L'antica India ci mostra nel modo più perfetto questo ideale che, in forma diversa, si trova anche in altre civiltà, sino a quella del nostro Medioevo nordico-romano.

E il nostro punto di riferimento non può essere un altro.

Come substrato la operosità sana della classe inferiore (shudrd), non più anarchizzata dalle ideologie demagogiche, diretta dagli esperti dello scambio, del commercio, di una organizzazione economico-industriale semplificata per semplificati bisogni (vaishya): di là dai vaishya, gli kshatriya, la nobiltà guerriera, che della guerra riconosce il valore e il fine, e nell'eroismo, nella gloria e nel trionfo della quale può ardere la superiore giustificazione di tutto un popolo; di là dagli kshatriya, i brahmano, la razza solare dello spirito e della Sapienza, di coloro che «vedono» (rshi) e che «possono» e che testimoniano attraverso la loro vita che noi non siamo di questa terra oscura, ma che le nostre radici vitali si perdono in alto, nello splendore dei «cicli». Al culmine di tutto, come mito e limite, l'ideale del cakravartì, il «Re del Mondo», l'imperatore invisibile, la cui forza è occulta, possente e incondizionata.

Scienza contro Sapienza

Come la potenza, spersonalizzandosi e socializzandosi, è divenuta oro, capitale, del pari la sapienza, spersonalizzandosi e socializzandosi, è divenuta «concetto», «razionalità». E questa è la seconda radice del male europeo.

Tanto la filosofia, quanto la scienza positiva occidentale sono, nella loro essenza, fondamentalmente socialistiche, democratiche, antigerarchiche. Esse propongono per «vero» ciò che deve essere universalmente riconosciuto, ciò a cui chicchessia, qualunque sia la vita in cui si lascia vivere, purché abbia soltanto una certa istruzione, può assentire. E così, come nel criterio di «maggioranza» del democratismo politico, esse presuppongono l'eguaglianza e dominano sotto il criterio di quantità su tutto ciò che in questo ambito potrebbe essere qualità, irreducibilità di qualità, privilegio di qualità.

E non vale proclamare dottrine individualistiche od anche relativistiche, quanto già nel modo di proclamarle, che è il modo concettuale della filosofìa profana, si dimostri di aver aderito a detti presupposti democratici, impersonali e collettivistici, che giacciono alla base di quella filosofìa stessa. La via è tutta un'altra — quegli stessi presupposti bisognerebbe cominciare col contestare, per prima cosa, se non si vuoi ricadere nell'insensatezza di un imperialismo che, al luogo di imporsi per quella gerarchia dall'alto, di cui si è detto, invocasse la propria giustificazione al riconoscimento popolare. E qui si ci sì comincerà ad accorgere con che nemico si abbia a lottare, quanto spaventosamente la stessa «cultura», non solo la «società» dei contemporanei sia un democratismo in atto - e che rinuncia essi debbono chiedere a se stessi per riconquistare la salute.

Come l'oro è una realtà divenuta indifferente rispetto alla qualità degli individui che lo posseggono, del pari lo è il «sapere» degli uomini contemporanei. Diciamo meglio: obbediente ad una volontà di eguaglianza, ad una insofferenza antigerarchica, e, quindi, ad un pregiudizio socialistico, il sapere degli Europei ha dovuto necessariamente portarsi su qualcosa, su cui l'efficienza delle differenze individuali e della condizione - per sapere — di un'attiva differenziazione individuale, sia ridotta ad un minimo; epperò si riferì o all'esperienza fisica, uguale ad un dipresso per tutti gli uomini in quanto sono animali (scienza positiva), o al mondo dell'astrazione e delle convenzioni verbali (filosofia e razionalismo).

L'esigenza della socializzazione del sapere ha condotto 1 fatalmente alla sua astrazione, epperò ha creato uno jato insuperabile fra il sapere stesso e la vita, fra il conoscere e l'essere oltre che con ciò che può essere qualità dei fenomeni e «realtà metafisica». È così che nell'Occidente il pensiero, quando non si riduca ad uno strumento per trascrivere più o meno convenzionalmente il lato più esteriore, generale-quantativo e uniforme delle cose materiali, non è che un creatore di irrealtà, di parole «reificate», di vuoti schematismi logici, quando anche non si risolva in uno sport intellettuale tanto più ridicolo, per quanto più fatto in buona fede.

Da qui tutta l'irrealtà dello spirito moderno: scisso dalla vita, l'uomo oggi è quasi un'ombra che si agita fra schemi e programmi e soprastrutture intellettuali impotenti a dominare la realtà e la vita stessa, mentre si fa sempre più dipendente da una scienza che aggiunge astrazioni ad astrazioni, schiava come è di leggi fenomeniche da essa constatate ma non comprese, ed esaurientisi tutte in una esteriorità meccanica, senza che una qualsiasi delle possibilità per l'essere interiore dell'uomo.

Per i limiti propri alla presente trattazione, noi qui non possiamo di certo andare a fondo nella quistione. Non si creda però che essa sia estranea allo stesso problema dell'Impero: così come lo poniamo, il problema dell'Impero è il problema par excellence, rispetto al quale non è possibile che problemi particolari possano separarsi e costituire un dominio a sé. Il particolarismo, l'indifferenza reciproca delle varie forme dell'attività umana - qui la politica, là la scienza, qui la pratica, là la religione e così via — sono un altro aspetto già rilevato della decadenza europea e un sintomo inequivocabile della sua inorganicità.

Sul sapere debbono poggiare i cardini della gerarchia imperiale: «devono governare i sapienti», fu già detto da Piatone - e questo è un punto centrale, assoluto, definitivo in ogni ordine razionale di cose. Ma nulla sarebbe più ridicolo che paragonare un tale sapere ad una qualunque competenza tecnica, scienza positiva o speculazione filosofante: coincidendo esso, invece, con ciò che al principio, come una espressione tradizionale usata sia dall'Occidente classico che dall'Oriente, abbiamo chiamato Sapienza. E la Sapienza è qualcosa di tanto aristocratico, individuale, effettivo, sostanziale, organico, qualitativo, quanto invece il sapere dei «civilizzati» è democratico, sociale, universalistico, astratto, livellatore e quantitativo. E qui, di nuovo, sono due mondi, due occhi, due visioni diverse da porre l'una di contro l'altra, senza attenuazione alcuna.

Conoscere, secondo la Sapienza, non vuoi dire «pensare», ma essere la cosa conosciuta: viverla, realizzarla interiormente. Non conosce realmente una cosa chi non possa trasformare attivamente la sua coscienza in essa. Epperò ciò che risulta da una esperienza diretta o individuale, soltanto ciò varrà come conoscenza. E all'opposto della mentalità moderna, la quale ciò che risulta immediatamente al singolo individuo lo chiama «fenomeno», parvenza «soggettiva», e dietro pone qualche altra cosa, che è semplicemente pensata o supposta (la «cosa in sé» dei filosofi, l'«Assoluto» della religione profana, la «materia», P«etere» o P«energia» della scienza) come la «realtà vera», la Sapienza è un assoluto positivisimo che chiama reale solamente ciò che si può cogliere in rapporto di diretta esperienza, e irreale, astratto, illusone tutto il resto.

Si obietterà che da questo punto di vista, tutto il sapere si ridurrebbe alle cose finite e contingenti date dai sensi fisici - e di fatto così stanno le cose, e così debbono stare, per la gran massa degli uomini; la quale soltanto di questa fìnitudine e contingenza — che resta tale anche dopo tutte le pseudo-spiegazioni scientifiche - può dire di sapere effettivamente. Ma oltre a ciò noi sosteniamo la possibilità di forme di esperienza diversa da quella sensibile dell'uomo comune, non «date», non «normali», se pure raggiungibili per mezzo di certi processi attivi di trasformazione interiore. La peculiarità di tali esperienze trascendenti (di cui il «sovramondo», l' «àmbito degli esseri», i sette cicli, le sfere di fuoco ecc. dell'umanità legata alla Tradizione furono solo diverse rappresentazioni) è di essere dirette, concrete ed individuali quanto l'esperienza sensibile stessa, e tuttavia di cogliere la realtà fuori dal lato contingente, spazio-temporale, proprio a tutto ciò che è sensibile; lato che anche la scienza tenta di sorpassare, ma a patto però di trascendere anche tutto ciò che è veramente sapere - visione, evidenza individuale e vivente - in mere probabilità, in «uniformità» incomprensibili, in astratti principi esplicativi.

Questo sarebbe il senso nel quale parliamo di realtà «metafisica». Si tenga fermo, in ogni caso, che abbiamo a che fare con dell'esperienza, e soltanto con dell'esperienza; che non vi è, dal punto di vista tradizionale, una realtà finita e una realtà assoluta, ma un modo finito e un modo assoluto di sperimentare la realtà, un occhio finito e un occhio assoluto; che tutto il cosidetto «problema della conoscenza» è rinchiuso nell'interiorità di ogni essere, non dipende da «cultura», ma dalla sua capacità di liberarsi dall'umano, quindi sia al sensibile che dal razionale ed emozionale e di identificarsi a questa o quella forma di esperienza «metafìsica» - lungo una gerarchia che procede sino a culminare in uno stato di identità perfetta, di visione spirituale, di piena attuazione, sovrasensibile, sovrarazionale di una cosa nell'Io e dell'Io nella cosa, che realizza uno stato di potenza e, simultaneamente, uno stato di assoluta evidenza rispetto alla cosa stessa, dato il quale non si chiede più nulla e si constata superfluo ogni raziocinare, tanto più ogni parlare.

Tale è, in rapidissime linee, il senso di quella Sapienza che costituisce il cardine dell'insegnamento «metafìsico» e della scienza spirituale (il cui rito dell'iniziazione operava originariamente appunto la trasformazione della coscienza necessaria per il «sapere» e il «vedere» metafisico) e la cui tradizione, sia pure per vene sotterranee, si è conservata nell'Occidente anche dopo la semitizzazione e la decadenza della sua antica civiltà.

Il punto da tenere presente è che la scienza sacra e sapienziale non essendo, come quel la profana, un «conoscere », ma un e s s e r e, essa non può venire insegnata da libri o università e trasmessa in parole: per conquistarla, occorre trasformarsi, trascendere la vita comune in una vita superiore. Essa misura esattamente la qualità e la realtà della vita individuale, di cui diviene privilegio inviolabile, e parte organica, al luogo di essere il concetto e la nozione che si può fare entrare nella testa come una cosa in un sacco, senza che contemporaneamente in ciò che si è si sia menomamente tenuti a trasformarsi od a smuoversi.

Da qui la naturale aristocrazia della Sapienza; da qui la sua decisa non-volgarizzabilità, non-comunicabilità. Un altro tabù degli Europei è appunto la comunicabilità: essi ritengono, ad un dipresso, che l'essere intelligibile e l'essere parlabile siano la stessa cosa. Non si accorgono che se ciò può aver senso nei riguardi di astrazioni intellettuali e di convenzioni sulla base di esperienze - quelle proprie ai sensi fisici — supposte uguali ad un dipresso in tutti, là dove questa uniformità cessa, là dove si riafferma una differenziazione qualitativa, la comunicatività discorsiva non può più essere un criterio.

Fondandosi precisamente sull'evidenza di esperienze in atto, di là da tutto ciò che è esperienza degli uomini comuni, la Sapienza lascia aperta soltanto una via: tentare di portarsi, per mezzo di un atto libero e creativo, allo stesso livello di colui che espone l'insegnamento, in modo da sapere per esperienza ciò che l'altro sa o dice con una parola, che altrimenti resterà soltanto parola. Alla socializzazione, spersonalizzazione e concettualizzazione del sapere, alla inclinazione democratica a «volgarizzare», a depotenziare il superiore ad uso dell'inferiore perché la maggioranza possa parteciparne senza smuoversi o cessare di essere inferiore - noi opponiamo intransigentemente l'attitudine contraria, aristocratica: debbono esistere gerarchie nello stesso sapere; debbono esistere molte verità separate tra loro da solchi profondi, vasti, invalicabili, corrispondenti esattamente a molte qualità di vita e di potenza, a molte distinte individualità; deve esistere una aristocrazia del sapere, e l'«universalità», comunicativamente, democraticamente ed uniformisticamente intesa deve cessare di essere un criterio. Non dobbiamo scendere sino a loro, ma loro sono tenuti ad elevarsi sino a noi dignificandosi, ascendendo sul serio - a seconda delle loro possibilità, lungo la gerarchla degli esseri - se vogliono partecipare delle forme superiori e metafìsiche, criterio a se stesse e alle inferiori e fisiche.

Donde risulta anche la libertà, il campo aperto, il respiro che lascia la Sapienza. Nel sapere socializzato vi è invece, e sempre, un nascosto «tu devi», vi è sempre una nascosta, intollerante imposizione moralistica: ciò che è verità «scientifica» o «filosofica» deve, in quanto verità, essere riconosciuta da ognuno; dinanzi a lei, non è permesso l'atteggiarsi diversamente. Espressione di un despotismo collettivo, essa vuole regnare dispoticamente su tutti gli individui rendendoli tutti uguali rispetto a lei - ed appunto sulla base di una tale volontà essa si è organizzata, ha costruito le sue armi, le sue prove, il suo metodo, la sua violenza. Nella Sapienza, per contro, l'individuo è disciolto, reintegrato, restituito a se stesso: ha la sua verità, che esprime esattamente e profondamente la sua vita, che è un modo particolare di sperimentare e di esprimere la realtà, il quale non contraddice od esclude altri modi diversi, che sono egualmente possibili nella differenziazione su cui si basa la gerarchla della Sapienza.

E questo basti per quanto riguarda la seconda radice del male europeo e il suo correttivo; già in questo cenno si giustifica il principio, che «debbono governare i sapienti». Nell'ordine della Sapienza la gerarchla del sapere è coestensiva alla gerarchla della forza e della superiorità degli individui. Il sapere è essere, e l'essere è capacità, e poter e, onde attrae spontaneamente a sé la dignità dett'Imperium. Il vero fondamento del concetto originario radicato nella Tradizione di «regalità divina» non fu nessun altro.

Di contro a ciò, ripetiamolo, vi è l'Europa tutta, con una eredità ed una organizzazione plurisecolari: vi è, dicemmo, il regno dei professori, degli «intellettuali», degli occhiali senza occhi, il mondo universitario, «colto», accademico, che nell'arrogarsi il privilegio del sapere e dello spirito testimonia soltanto a che grado abbiano potuto spingersi la decadenza e l'astrazione dell'uomo moderno. 

   

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