Julius Evola

La dottrina della palingenesi nell'ermetismo medievale

 

E' nostra opinione che il presente argomento debba interessare ogni cultore delle scienze dello spirito, sia per la sua natura, sia perché esso di fatto sinora è rimasto fuori da ogni considerazione comprensiva da parte della cultura ufficiale. Diciamo della “cultura ufficiale”, inquantochè vi sono stati, e vi sono tuttora, ambienti di carattere, per così dire, “esoterico”, i quali a mo' di tradizione, si trovano in grado di conservare delle nozioni sufficientemente precise in proposito. Tuttavia il discredito, in buona parte giustificato, nutrito in generale per tutto ciò che ha sentore di quelle « scienze occulte » a cui detti ambienti in massima si rifacevano, e il carattere volutamente oscuro di ogni loro espressione, ha fatto sì che queste conoscenze restassero chiuse fra coloro i quali, sapendo già, avrebbero anche potuto farne a meno. D’altra parte al dire che per « ermetismo medioevale » intendiamo riferirci essenzialmente alle dottrine della tradizione alchemica, si scorge da per sé la natura delle « difficoltà a credere » che negli spiriti critici di oggi debbono sorgere per il fatto di riaccostare all’alchimia dottrine di palingenesi o comunque di spiritualità. Per cui, anzitutto, è opportuno un cenno di giustificazione del nostro stesso argomento.

Ermetismo e “Chimica mitologica”
Nel suo Tramonto dell’Occidente Osvaldo Spengler parla di una legge di discontinuità fra i cosiddetti « cicli di cultura »: cioè dell’eterogeneità tra forme le quali, a causa di una radicale diversità di sistemi di riferimento, escludono la misurabilità delle une alla stregua delle altre. Donde la facilità di svisamenti ogni qualvolta i moderni si danno ad interpretare le scienze e le dottrine di antiche tradizioni non abbandonando i sistemi di riferimento cui sono usi. Così, nei riguardi dell’alchimia, l’opinione « ufficiale » è notoriamente che essa si riduca alla chimica attuale nel suo stadio infantile, mitologico, prescientifico, al vecchio tronco, ormai morto, da cui sarebbe « evoluta » la chimica attuale. Ora noi non pensiamo di contestare che l’alchimia comprenda degli aspetti, nei riguardi dei quali una tale opinione sia approssimativamente esatta: ma che questi aspetti esauriscano l’essenza della tradizione ermetico-alchemica, o comunque si possano considerare come i legittimi esponenti di essa, è cosa che riteniamo suscettibile di discussione, inquantoché bisognerebbe allora chiudere gli occhi su una quantità di elementi, che è tutt’altro che « scientifico » trascurare, una volta, s’intende, che si sappia di essi. Sta di fatto, a questo riguardo, che autori ermetici fra i più quotati qualificavano ironicamente di « soffiatori » e di « bruciatori di carbone » coloro che interpretavano la loro scienza nel senso di operazioni materiali quali il moderno storico della scienza può concepirle [1]; coloro che cercavano qua e là, fuori di se stessi, la « Materia » dell’Opera e pensavano che l’ “Oro filosofale” sia un « oro che si può spendere »: dicendo loro assai esplicitamente che su questa via l’unico risultato del travaglio sarebbe stata una perdita di tempo e di denaro; consigliandoli infine di gettar via erbe, metalli, gemme e quanto altro, nella loro incomprensione, pensavano poter condurre allo scopo [2] e di pregare a fine che per illuminazione riuscissero a vedere di che effettivamente si trattasse [3]. Si può pur dire che l’alchimia sia stata una scienza naturale: ma bisogna rendersi conto che la « natura » nel ciclo di cultura in cui si deve far rientrare l’alchimia, ha un significato ben diverso da quello moderno; cioè non è una morta esteriorità — alla fin fine incomprensibile — somma di un quantum di leggi astratte sulle varie serie di manifestazioni fenomeniche — calore, elettricità, luce, ecc. — sibbene un gran corpo animato e sacro, composto di forze viventi, un tutto ammirevole intimamente congiunto con lo spirito umano e da questo simpaticamente adombrato attraverso leggi di analogia, di partecipazione mistica, di comunicazione simbolica. In una tale visione, una scienza “naturale” non poteva non avere simultaneamente un significato spirituale era un sapere d’ordine cosmologico, applicabile ad un tempo all’ordine umano in virtù dell’analogia fra macrocosmo e microcosmo espressa dal principio dell’ermetica Tabula Smaragdina « Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso per i miracoli di una cosa unica » [4]. Ed attraverso la polisemia delle espressioni simboliche, ecco che essa poteva anche potenziarsi di un significato superiore, onde le operazioni e gli elementi naturali venivano anche ad alludere ad operazioni cd elementi interiori e soprannaturali, sino a che la « trasmutazione » si svelava come una allegoria per l’opera di palingenesi, per la « Grande Opera » a cui si attribuiva il potere di sciogliere l’uomo dalla natura corruttibile e di conservarlo in un « corpo glorioso » di là dalle condizioni di spazio e di tempo, del nascere e del morire. Quale che sia il suo valore, è su questa base che vanno affrontate le espressioni della tradizione ermetico-alchemica, non su quella che comunque può stare a sostegno delle opinioni scientifiche moderne. E bisogna dire che gli autori del tempo non hanno risparmiato parole a fine di prevenire l’equivoco: essi ripetono a savietà, e su tutti i toni, che le loro espressioni non vanno prese alla lettera; che le loro sostanze non sono quelle visibili, ma quelle viventi [5]; che il loro « Fuoco », per esempio, è un « Fuoco che non brucia », né bagna, la loro « Acqua », le mani; e così via, in una quantità senza limite di analoghi bisticci. “Non ti lassare ingannare —— dice testualmente il Braccesco, riportando un’espressione di Geber [6] — et non credere alla semplice lettera dei Philosophi in questa scientia, poiché dove hanno parlato più apertamente, quivi hanno parlato più oscuramente, cioè per enigma, ovvero per similitudine », soggiungendo [7] che “quello che gli sapienti hanno detto per similitudine, ovvero per analogia, molti lo pigliano secondo la lettera, però si trovano ingannati”. Lo stesso dice lo Schròder: « Quando i Filosofi parlano senza raggiri, diffido della loro parola; quando si spiegano per enigmi, rifletto ». Artefio [8], poi, è addirittura drastico nei confronti del lettore: “Povero idiota! — esclama — sarai tu così semplice da credere che noi ti insegniamo apertamente il più importante dei segreti, e da prendere le nostre parole alla lettera? Io ti assicuro che colui il quale vorrà spiegare ciò che i Filosofi scrissero col senso ordinario e letterale delle parole, si troverà preso nei giri di un labirinto, donde non potrà più liberarsi”. Ci sembra che non si saprebbe essere più chiari, e con citazioni del genere potremmo riempire pagine su pagine, col solo imbarazzo della scelta. Ci chiediamo se tutto questo sia tale da non generare proprio nessun sospetto in chi, sulla base della terminologia metallurgica, riduce senz’appello l’intera alchimia all’infanzia della chimica moderna. E il sospetto, poi, dovrebbe crescere quando nel bel mezzo di un trattato alchemico si senta, per esempio, dire che ciò che va svegliato nella “pietra” per il compimento dell’ “Opera” è lo « Spirito occulto del mondo » [9] che la sostanza sottile, da estrarre dalla « terra », è l’anima; quando non ci si perita a mettere in relazione il mondo alchemico con il «mondo magico de gli Heroi» [10]; quando, di colpo, ci si sente dichiarare che per “Solfo dei Saggi” o « Oro vivo », va intesa la volontà [11]; e parlare di una « vera resurrezione del corpo glorificato » nei riguardi di ciò che avviene allorché un’ “anima metallica” purificata viene resa al suo corpo [12]; quando—miracolo dei miracoli — fra i doni che il maleodorante « Solfo » fa a chi sappia liberarlo si indica la visione cosmica, l’immortalità e la conoscenza profetica [13]; quando assistiamo ad un passare in via spontanea della terminologia alchemica in sistemi del tutto astratti, come quello di Jacob Bòhme, ovvero terapeutico-magici, come quelli di Paracelso e di Agrippa, ad un suo confondersi con elementi templari e rosicruciani [14]; quando — infine — constatiamo che le descrizioni di operazioni, che dovrebbero essere banalmente chimiche, sono continuamente interpolate con riferimenti alla divinità, all’illuminazione interiore, alla dignità spirituale e sentiamo dichiarare, senza mezzi termini, che lo scopo dell’opera è la trasformazione di un essere in un altro essere, come di debolezza in potenza, di corporalità in spiritualità [15]. Ci troviamo dunque dinanzi ad un insieme di indicazioni, che qui non possiamo organizzare, come pur ci sarebbe possibile, sino ad una certezza apodittica (ad un lavoro del genere stiamo dedicando un apposito volume), ma che tuttavia — lo speriamo — danno una qualche garanzia ad ogni lettore spregiudicato, che avventurarsi, nei riguardi della letteratura ermetico-alchemica, ad una interpretazione nel senso di quella che il Valli ha impostata sui testi dei «Fedeli d’Amore» (che pur non sono altrettanto espliciti nella dichiarazione del loro simbolismo), non è cosa di pura fantasia.

Le ragioni del simbolismo e lo spirito della realizzazione ermetica. Ma se la tradizione ermetico-alchemica fosse stata effettivamente la portatrice di un insegnamento spirituale, e nel senso di una dottrina di palingenesi, viene spontaneo il chiedersi, perché mai essa lo abbia occultato sotto un simbolismo così insistente, così complesso, così — diciamolo pure — sconcertante. Noi siamo indotti a pensare che la palingenesi ermetica avesse un carattere speciale, che essa effettivamente partisse da concezioni e da valori che, se possono forse attirare la simpatia delle coscienze moderne più libere e più ardite, dovevano venire in contrasto con le concezioni della Chiesa Cattolica dominante e non certo peritantesi di ricorrere al braccio secolare pur di « salvare le anime » con più o meno scapito dei corpi. Sulla base dei testi, noi crediamo di poter ricondurre questi elementi differenziali, e specifici alla palingenesi ermetica, ai tre punti che seguono:

I) La dottrina ermetica della palingenesi ha una premessa inequivocabilmente immanentistica. — La formula si trova già nel Codice Marciano: Uno il Tutto — e nell’alchimista greco Zosimo (IV sec.) si esplicita in queste espressioni, relative al Principio, o « Materia » dell’Opera: “Non è né un metallo, né l’acqua sempre in movimento, né un corpo ... E’ il Tutto nel Tutto: esso ha una vita e uno spirito”. E ancora: “Questo è il divino e grande mistero, la cosa che si cerca. Questo è il Tutto. Da lui il Tutto, ed il Tutto da lui. Due nature, una essenza sola, che l’una attira l’altra e l’una domina l’altra. Questa è l’acqua-argento (= mercurio), l’Ermafrodito”. E più oltre: “Non è dominata” [16]. Simbolo ne è il cerchio, la linea che si conchiude in sé, e che in sé ha principio e fine. Nessun luogo, dunque, per l’idea di una trascendenza personale staccata dal mondo. La trascendenza esiste, ma è compresa nell’immanenza: è una forma, un modo di essere della “Cosa Unica”, che è “uno e due”, perché è sé stessa ed anche il superamento di sé stessa. In una delle più antiche testimonianze alchemiche, anch’essa contenuta nel Codice Marciano, come chiave dei testi trasmessi al Pseudo-Democrito si da la formula: “La natura si rigenera con la natura; la natura doma la natura; la natura domina la natura a; tema che poi va a risonare da tutte le parti dell’ermetismo medioevale, partendo dalla Turba Phiosophorum: “Natura gode di sé nella natura; natura supera la natura; natura contiene natura” [17]. E Flamel: « Si dissolve, congela, ottenebra, schiarisce . . . uccide e vivifica da sé stesso » [18]. « Se dichiariamo spirituale la nostra materia è vero; se la diciamo corporale, non mentiamo. Se la chiamiamo celeste, è il suo nome vero; se la chiamiamo terrestre, parliamo con esattezza » [19]. E Moriano [20] « Il Magistero nostro è una cosa che sussiste in sé medesima senza bisogno di nessun’altra cosa... Questa materia si fa uno, e questo è uno fatto con essa e non si aggiunge né si toglie nulla ». Razi, riferito dal Pernety [21], parla dell’esser sposa di sé stessa e del suo potere autotrasformativo, onde da sé consegue la perfezione dell’Opera; così come analogamente nel Trionfo ermetico è detto che “si uccide e poi si risuscita da sé stessa”. E questa « Cosa Una », che rinchiude in sé tutti i principi, quelli della natura fisica e quelli della natura spirituale, quelli di morte e quelli di vita, quelli di perdizione e quelli di rinascita, la cui via “sale al cielo e di nuovo scende in terra” (Tabula Smaragdina), la cui legge è duplice, « androgina », questa Materia Prima è detta immanere in seno allo stesso essere umano. “Il Telesma, il Padre di tutte le cose è qui” dichiara la Tabula Smaragdina. Onde Moriano, richiesto dal Re Kalid di essa, risponde: « O Re, io vi confesso la verità: Dio, per il suo piacere, ha creato questa cosa più mirabile in voi, e in qualunque luogo voi siate, essa è in voi; e non saprebbe essere separata, e tutto ciò che Dio ha creato non saprebbe sussistere senza di essa, onde se la si separa da qualche creatura, questa muore sull’ istante » [22]. E i Sette Capitoli di Ermete (~ I): “Ecco, vi rivelo ciò che è stato nascosto: l’Opera è con voi ed in voi; trovandola in voi stessi, ove essa è continuamente, voi l’avete anche dovunque siate, in terra o in mare”. Tale essendo lo sfondo dell’ermetismo, ognuno vede da sé la poca ortodossia che esso poteva rivendicare rispetto alle credenze dominanti, le quali alla dottrina dell’unità opponevano quella del dualismo teistico e conseguentemente si incentravano in condizioni di salvazione, di grazia e di devozione, laddove l’opposta dottrina recava implicita l’idea che l’uomo può bastare al compito della propria rigenerazione, richiedente soltanto che la tecnica precisa di un arte (l’arte ermetica, l’ “Ars Regia”) si aggiungesse a quel che è una possibilità latente della “Natura”. Da cui il detto superbo di Moriano, con allusione agli alchimisti: « Quelli che hanno in sé stessi tutto ciò che occorre, non hanno bisogno del concorso di chicchessia » [23] eco del « Sei tutto in tutto, composto di tutte le potenze » del Corpus Hermeticurn (XIII, 2). E lo scopo dell’Arte da Basilio Valentino è indicato appunto come: “Esser tutte le cose “, « Aver tutto in tutto » [24]. ) Né basta. Questo insegnamento dei « Figli d’Ermete » è altresì collegato alle premesse aristotelico-pagane, onde nell’ordine della natura ogni sviluppo è concepito in funzione di potenze che dalla imperfezione e dalla virtualità informe passando all’attualità, nel loro compimento si trovano ad essere qualcosa di più e di migliore di quanto le precedette. Basta trasporre questa veduta nell’ordine della realizzazione spirituale, per sboccare in una concezione che potremmo chiamare magica, se con questo termine si stabilisce di distinguere quelle tradizioni d’Oriente e d’Occidente, ove il “Compiuto”, il « Perfetto », viene considerato come superiore ad ogni divinità, signore di ogni essenza sia materiale che spirituale, apice, insomma, e giustificazione, télos, di tutto il processo della natura [25]. Ecco dunque che i « Figli d’Ermete » dichiarano che l’antecedente è un caos, una imperfezione, qualcosa di indeterminato, limite della natura che solo la loro « Arte » superera sino ad una perfezione [26]: e più esplicitamente, ed uniformemente, affermano che il loro « Fanciullo », « creatura di quest’Arte Sacra e Regale » — cioè il Rinato — è più nobile, più possente, più grande, dei suoi cosmici genitori, il Cielo e la Terra, il maschio Sole e la femmina Luna (simboli tradizionali e arcaici della dualità cosmica della forza attiva radiante e della Forza demiurgica operante sotto l’impulso della prima, akineton kinoùn e fysis in Aristotile, ous e ousìa in Plotino, purusha e prakrti nella tradizione indù, yang e yin in quella taoista) [27]. Quell’ “Acqua Celeste” o « Primordiale », o «Divina » che è la « Vergine » in cui egli ha conseguita la rinascita, che è dunque sua madre così come anche madre di ogni essere — ecco che egli, « primo di una razza di Re potentissimi », la perseguita, la soggioga, la possiede, la domina, la « fissa » sotto il suo potere [28]: espressioni di cui si vede chiara, se non la derivazione, almeno l’analogia con gli antichi miti mediterranei prometeici e titanici, specialmente con quello riportato da Atenagora (XX, 292), dove Zeus, sbranato il Padre e presone il regno, insegue e possiede sua Madre Rhea [29]. Ma a tutto questo — si badi — va tolto ogni rivestimento diabolico-letterario: non bisogna dimenticarsi che il presupposto è una dottrina dell’unità, per cui non si tratta di rivolta di « creature » di contro ad esseri divini da loro distinti, sibbene del manifestarsi, in seno alla « Cosa unica » —per opera di quella che con i Gnostici, l’alchimista Zosimo chiamava la « Razza dei Senza Re » (abasiletitozts) [30]— di alcune potenze, le quali prendono il luogo di altre, e le soggiogano. Ma dal punto di vista dualistico, la cosa deve apparire per forza molto diversa: improntata dai caratteri del luciferismo più autentico e del più blasfemo satanismo. Per le conseguenze che ognuno poteva prevedere, si comprende dunque, e si conferma, la necessità di occultamento da parte di dottrine del genere.

3) L’ultima ragione di occultamento della dottrina sta nelle possibilità attribuite alla rinascita ermetica. Qualora fosse effettivamente possibile un compimento su] genere di quello a cui sopra abbiamo dato l’epiteto di « magico », nel suo concetto è certamente compresa la facoltà di disporre di alcune energie che, superando la condizione corporea, possono altresì affermarsi di là dalla legge Io-non-Io della comune esperienza. La trasmutazione — ossia cangiare in determinate condizioni, l’orientamento degli atomi di una sostanza sì da ridurla in un ‘altra chimicamente diversa —- a questa stregua sarebbe allora — almeno logicamente— concepibile. Ora dinanzi a possibilità del genere gli autori ermetici indicano ripetutamente la necessità dell’occultamento per una doppia ragione: a) Per l’indegnità dei più, che ne abuserebbero; b) Per l’avidità dei potenti, che non indietreggerebbero dinanzi a nulla pur di ridurre al loro servigio chi disponga di tali facoltà: insegni il caso del Sethon, messo allo tortura da Cristiano II, Elettore di Sassonia, e a quella soggiaciuto. A tal proposito, per quanto dì passaggio (non potendo qui dare tutti gli elementi che giustificano ciò che diciamo) dobbiamo dunque richiamare l’attenzione sul fatto che se nell’alchimia la trasmutazione può avere un significato non soltanto allegorico, bensì effettivo e letterale, purtuttavia non si tratta di una operazione quale lo scienziato d’oggi può concepirla; ed in ogni caso, si tratta di una applicazione e di una conseguenza, non dello scopo dell’ “Opera”. Vogliamo dire che non si ha un procedimento, basato unicamente su determinismi esterni, e assolutamente indipendente, dunque, da ciò che è l’operatore: si tratterebbe, al contrario, di qualcosa in cui la forza spirituale dell’operatore è impegnata come parte operante ed integrante, ed agisce per una possibilità sugli elementi fisici, che il Rinato secondo l’arte ermetica possiede, e gli altri non posseggono; e che però resta la condizione prima. Dopo di che, possiamo passare ad analizzare il significato e la tecnica di questa stessa rinascita o palingenesi.

La tecnica della realizzazione ermetica.
Bisogna premettere alcune nozioni sulla divisione dell’essere umano e sul simbolismo corrispondente in uso fra i “Figli di Ermete”. Si tratta, in massima, di una divisione ternaria che viene dalla tradizione classica, specie alessandrina: l’uomo è anima, spirito e corpo. Rileviamo che, a differenza del significato moderno dei termini, l’ “anima” qui ha una maggior dignità che lo « Spirito » : non è la parte sentimento, più o meno femineo-soave-romantica, dell’essere — sibbene ciò che oggi si intende appunto per Spirito, per “Io”: è la radice dell’essere individuale, ciò che lo costituisce e che lo tiene su come una forza ed un principio distinto: qualcosa di essenzialmente attivo, cui viene fatto corrispondere il maschio elemento Fuoco, ed anche il principio Solfo sulla base della polisemia del greco thèion che vuol dire sia Solfo che divino. E’ altresì riferito all’Oro, per la sua perfezione rispetto agli altri elementi e per la sua lucente incorruttibilità; e al Sole. Lo “spirito”, invece, ha il significato speciale di « forza vitale», nel senso di quella sostanza eterea indicata dagli Alessandrini come medium fra mente e corpo e corrispondente alla “forma sottile” (sukshma-carira) e al pràna della tradizione indù, al ka di quella egizia, all’ob e al ruach di quella semitica. Esso sarebbe il veicolo naturale, tratto per specializzazione dalla vitalità cosmica o « spirito del mondo», di cui si riveste l’anima per muovere, azionare, vivificare la natura corporea; epperò rispetto all’anima ha il simbolo di Luna di contro a Sole; ed è anche riferito all’Acqua ed al Mercurio (=acqua-argento) [31] per via della legge di cangiamento, di instabilità, di inafferrabilità diveniente che nelle più antiche tradizioni, o-ed occidentali, è riferita alla vita animale. Infine abbiamo il « corpo », corrispondente ad un simbolismo molto vario. E’ chiamato talvolta « Pietra », con lontano eco, forse, del simbolismo evangelico, per indicare che esso è la base e la materia della costruzione ermetica (“Su questa pietra edificherò il mio tempio”); talaltra « Terra », per la nota relazione stabilita sin dalla tradizione biblica fra questo elemento e l’uomo carnale oltreché per ragioni simboliche, che vedremo, sul tipo di quelle della « parabola dei seme »; talaltra “Miniera”, con riferimento al suo contenere —- secondo la corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo — tutti principi che daranno luogo all’Opera; Saturno e Piombo, mòlubdos eméteros, quale principio oscuro e pesante [32]; e via dicendo. Le corrispondenze simboliche: Anima=Solfo (o Fuoco, o Sole, o Oro); Spirito=Mercurio (o Acqua o Luna o Argento); Corpo=Terra (o Sale) sono esplicite e uniformi nei testi ermetici e non si comprende proprio il nessun conto che di esse ha tenuto la critica moderna. Si è che essa dovunque si è incontrata in termini mistici, con una specie di verdetto d’autorità li ha dichiarati simboli e allegorie di elementi fisici e di metalli, mentre è vero proprio il contrario, cioè che gli elementi fisici e metallici nell’ermetismo spesso non sono che allegorie di elementi spirituali; e non v’è che chi trascuri l’inseparabilità delle origini della alchimia dallo gnosticismo, dall’ermetismo mistico, dalla misteriosofia e dalla magia a cadere senz’altro nell’equivoco. Di frequente dalla tripartizione si passa alla bipartizione, in termini di Sottile. e Spesso., Volatile e Fisso: il sottile e volatile sarebbe la parte incorporea dell’essere umano, cioè anima e spirito( rispetto all’altra parte, greve, pesante, non trasformabile, costituita dal corpo (= spesso o fisso). A meno che non si abbia in vista il carattere di caducità di ciò che è corporale, e quello di sussistenza e di identità che in un certo modo ha l’Io — nel qual caso il simbolismo di fisso e di volatile si inverte. Questi termini sono radice di un simbolismo secondario ricchissimo, tratto da analogie di tutti i regni e i fenomeni naturali, ed altresì dalla materia della mitologia classica e persino dei Vangeli: meandri di uno sconfinato labirinto sparso di spiriti, di iddii e di metalli, per il quale tuttavia le corrispondenze ora segnalate offrono, in massima, un sicuro filo d’Arianna.

Ciò posto, i termini della dottrina ermetica della palingenesi sono i seguenti:

L’anima, il principio igneo e sulfureo (divino) dell’uomo, che potenzialmente è il « Telesma », il « Padre di tutte le cose », per degli antecedenti che non vengono approfonditi [34], nello stato comune di esistenza si trova come paralizzato. Causa di ciò, è la legge che lo tiene fissato alla fissità del corpo, la « densità » del quale gli crea come una prigione: o, per meglio dire, la causa più immediata è la corrispondente prigionia del principio « mercurio » o « spirito ». Specializzato dal corpo, il principio vitale si è staccato dalla universale, non individuata possibilità della vita, radice una di tutti gli esseri e gli elementi (la « Miniera »), e conseguentemente la potenza dell’anima è limitata, arrestata nelle condizioni della vita corporea. Questo è « il carcere tenebroso del Solfo di cui Mercurio detiene le chiavi » (Sendivogio), lo « stato di privazione dell’Albero di Vita » (Della Riviera), l’imperfezione o impurità o « lebbra del Solfo, il « Sepolcro » (Flamel, Meyer). Si tratta, in primo luogo, di liberare l’anima, « sciogliere il fisso ». Ma ciò è possibile solamente a mezzo della liberazione del mercurio, dello « spirito », che va « separato con grande arte » dagli elementi spessi e materiali, sì che il principio vita, sottraendosi alla condizione dell’individuazione, di nuovo comunichi con le acque permanenti e viventi », con le « acque celesti », « mare nostro », « fontana », « legno di Vita », « Occulto spirito del Mondo », « Solvente magico », « Quintessenza », « Mare », « Vergine », « Oceano » —— tutte espressioni riferentesi allo stato puro, incondizionato, della forza che dà vita e movimento all’uomo e alle cose. Operata questa « estrazione », o « separazione », o conversione del mercurio nella sua Materia Prima », l’anima stessa è « disciolta », in questa trasformazione conseguendo morte e resurrezione è una « estasi », in cui lo stato individuato della coscienza, trova la sua crisi, la sua « morte » in senso misterico (fase di « mortificazione » e di « putrefazione » — è appunto chiamata nei testi — ove le « Acque » hanno funzione di « veleno », di « tossico », di « spada che percuote ») — ma per far riscaturire la sua natura arcaica e cosmica è 1’» alba », il “giorno”, la “luce”, la “materia al bianco”, la nascita del fanciullo dalla Vergine, la “Primavera dei Saggi”. “La nostra acqua risuscita il morto ed uccide il vivo” vien detto già da Ostano (Cod. Marc.) — il “vivo” essendo l’anima nella sua pseudo-vita in corpo mortale, il “morto” da risuscitare, invece, essendo l’arcaica natura di quella, che in tale corpo giace come in un sepolcro [35]. Ognuno vede le analogie di queste espressioni con la terminologia misterico-evangelica; analogie che si estendono sino al più antico simbolismo eleusino nei riguardi di altre espressioni ermetiche, ove il Solfo o Anima viene assimilato al seme, che devo morire e putrefarsi in seno alla Terra — che qui esprime il luogo profondo del nostro essere, dove la vitalità è ancora allo stato puro — a fine di poter dar luogo a nuova vita, a frutto di resurrezione [36]. In connessione a quanto già dicemmo sullo specifico senso magico della palingenesi ermetica, bisogna tener presente che la fase di “soluzione” e di “riduzione alla materia prima” qui non è da prendersi in senso mistico: non si tratta di sfuggire al corpo, di “liberarsi” nel senso di evadere e di sciogliere l’individuazione nell’universale, quasi come un granello di sale che si dissolva in un oceano: l’anima, l’Io deve mantenersi attivo dinanzi all’indifferenziata vitalità: deve riaffermarsi su essa, da cui pur tuttavia ha tratto il risveglio, la resurrezione, la rinascita. Così nei testi la Fase preliminare di semplice riassorbimento, di dissoluzione nello Spirito cosmico è data sotto il simbolo di processi contro natura : qui la Luna domina il Sole, e la Femmina il Maschio, la Madre riprende il Figlio nel suo grembo, il Signore obbedisce al servo e via dicendo. Ma subito dopo i rapporti si invertono, e tornano quali debbono essere: il fisso (che qui esprime non il corpo, ma l’Io, l’anima, secondo il suo carattere di stabilità e di identità), una volta dissoltosi nel volatile (lo spirito), risuscita in una più alta natura, e su di esso reagisce, e a sua volta lo fissa, cioè lo domina, lo piega sotto la legge della sua natura: figlio, va a possedere e rigenerare sua madre: lo Sposo riprende la Sposa [37]. E da qui si è portati al punto centrale della dottrina, il quale concerne la costruzione della « corporeità spirituale ». « Rendere spirituale il corporale e corporale lo spirituale », insieme a « Sciogliere il fisso, fissare il volatile ‘o più semplicemente Solve al Coagula — è un leit-motiv ricorrentissimo nella letteratura ermetica: e senso ne è che l’anima, una volta subita la trasformazione della rinascita, e riaffermatasi; una volta distrutto il sonno, reintegrata la possibilità paralizzata, una volta discioltasi e purificatasi mediante il contatto con la forza allo stato puro (è il « Secondo Legno di Vita », dall’alchimista italiano Della Riviera messo in esplicita relazione con la Magia), deve procedere ad una azione sullo stesso corpo da cui si è distaccato, tanto che questo stesso si trasformi e giunga a partecipare di una natura spirituale ed immortale [38]. E diciamo “deve” inquantoché la condizione di un corpo (prendendo il termine nel senso più lato del sanscrito rùpa, rispetto a cui il comune corpo fisico non è che un caso speciale) in un certo modo è altresì la condizione per mantenere il senso dell’individualità, dell’Io. Per mantenere questo senso, e nello stesso tempo lo stato della coscienza rinnovata, è dunque necessaria una condizione nuova, spiritualizzata, della corporeità: uno stato del corpo che abbia direttamente il senso di una corporificazione dello spirito. Ed ecco dunque che gli ermetisti congiungono in uno stesso movimento le due fasi della liberazione dello spirituale e della sua corporificazione, a fine di giungere alla « Pietra filosofale », cioè alla Pietra (corpo) che essa stessa ha subito la trasformazione della rinascita, che da « veste di servitù » è stata cangiata in « veste di gloria » — per usare l’espressione della Pistis Sophia: ad un corpo spirituale, insomma, che faccia sussistere insieme la condizione dell’individualità e quella della sopravvivenza. Qui non staremo a ricordare la corrispondenza di tale nozione con quella di “corpo di resurrezione”, “corpo magico”, « corpo di libertà », « corpo immortale » e « apparente », che si ritrova in tradizioni sia di Oriente che di Occidente, e su cui già avemmo occasione di soffermarci [39]. Non possiamo però tralasciare di indicare — nello speciale riferimento alla questione dell’immortalità — come presupposto di queste tradizioni, epperò altresì di quella ermetico-alchemica — una speciale concezione della sopravvivenza, che possiamo dire di sopravvivenza personale condizionata. La sopravvivenza personale non sarebbe una legge uniforme e naturale per ogni anima umana, sibbene privilegio di quelle rare, fra di esse, che abbiamo conseguita la rinascita in un « corpo » speciale, da estrarsi dal corpo fisico, o da ottenersi mediante una certa, essenziale trasformazione di esso. In caso diverso, nulla sussisterebbe, come individualità, ai disfarsi dell’organismo, e si avrebbe un ritorno, un riassorbimento dissolutivo dei vari elementi psichici e fisici nelle varie « radici » impersonali donde promanarono. Questa dottrina si ritrova in India [40], si ritrova nel Tibet [41], anche più precisamente nel Taoismo cinese: riferisce il Puini [42] che per il Taoista « il corpo diviene un lambicco in cui per via di operazioni complicate e pratiche fisiche e morali viene elaborata la propria immortalità... E’ il corpo che mediante le pratiche taoiste forma in sé stesso un’anima, la quale al disfacimento di quello lo sostituisce nell’eternità ». Del pari nell’antico Egitto la sopravvivenza della coscienza aveva per condizione la formazione di un divino corpo spirituale, detto sahu, dalla materia del ka (equivalente al « mercurio »: cioè dalla vitalità, dallo « spirito » del corpo fisico). E la derivazione del termine « sahu » da aha=star su, che col prefisso s, usato per formare i verbi causativi, dà saha far star su, adergere —— insieme alla naturale opposizione col termine kherit colui che è caduto, usato in egizio per designare il morto — ci riconduce ai termini anà-stasis e anìstemi, aventi etimologicamente lo stesso senso di «sahu», usati da Erodoto e sin da Omero nel senso di risorgere da morte; e quindi alla nozione paolina di « corpo di resurrezione » e delle analoghe, alessandrine e gnostiche, sino alle precise espressioni contenute appunto nella letteratura ermetico-alchemica [43]. Noi ci limitiamo ad indicare la presenza e la « tradizionalità » di un simile insegnamento: giudicar poi che senso, o, per dir meglio, che interesse possa avere una sopravvivenza, quando non sia concepita come sopravvivenza individuale — e d’altra parte come si possa parlare di individualità, senza riferimento ad un corpo che, peraltro, qui non può essere quello fisico — è cosa che qui non è il caso di discutere. Del pari, qui non è il caso di vedere in che, concretamente, si risolva la pratica della palingenesi ermetica, che per esplicita dichiarazione dei Filosofi, non è stata mai da loro « déclarée au vray » [44]. Che cosa sia quel « Fuoco dei Filosofi » che in un primo tempo agisce in senso di produrre la « separazione », la scomposizione dei misti », la « riduzione alla materia prima »; e poi sviluppa la conversione della corporeità in spiritualità e della spiritualità in corporeità — è un segreto costantemente, « ermeticamente » mantenuto da tutta la tradizione. I testi si limitano a dire che non si tratta naturalmente del fuoco volgare, ma del « fuoco nostro », detto anche « fuoco magico », « fuoco interiore », « fuoco contro natura »; e per conto nostro siamo convinti inoltre che come non si tratta del fuoco dei fornai, non si tratti nemmeno di un simbolo per un semplice ardore devozionale, per un mero stato di sentimento — allo stesso modo che riteniamo la « separazione » e la « mortificazione » ermetica esser lungi dal ridursi ad una semplice disciplina ascetico-morale. Ma su tutto questo il nostro discorso sarebbe molto lungo oltre che poco apodittico per chi, almeno, non sappia già per conto proprio; onde preferiamo passare a dir qual cosa sul simbolismo dell’ “athanor”, riferentesi appunto alla trasformazione delle due nature in una cosa unica, « raccogliente in sé le virtù delle cose superiori e di quelle inferiori »(Tab. Srnaragd.). L’ “athanor” (probabilmente dall’ebraico athannur la fornace) è il nome di un fornello speciale a riverbero, ove la materia del « composto » o “misto” (simbolo per le opposte nature comprese nell’esser umano) va « ermeticamente » rinchiusa (probabile simbolo di una condizione di isolamento, di distacco dalla vita esteriore, di raccoglimento totale) [45]. Acceso il “fuoco”, il « misto » si scompone : il denso e l’impuro precipitano; il sottile si discioglie (si noti sempre il doppio senso di questo termine) si esalta, ascende. Ma l’ “uovo” essendo chiuso, lo slancio di distacco diviene arrestato: il « volatile » urta contro le pareti dell’ “athanor”, si raccoglie e condensa, e riprecipita in basso. Si produce allora un ciclo di sublimazione e precipitazioni ricorrenti, per le quali l’oscura sostanza, che fu prigione del Solfo, si affina, si purifica sempre più, si fa interiormente luminosa, arde infine nello stesso principio igneo ed a lui si identifica. Allora l’ “athanor” si schiude: e d’in fra le fiamme spicca il volo la purpurea Fenice, simbolo di una autogenerantesi e indistruttibile vita. I residui sono scomparsi: i due sono divenuti uno: è il simbolo dell’» Androgine » o « Rebis » (da res bina=cosa doppia), il Signore delle due nature [46]. Tale lo stadio di perfetta reintegrazione, per cui si è « espugnata la gloria nel mondo e ridotto sé a proprio suddito », per cui « ogni oscurità si è per sempre dipartita » (Tab. smar.) e il « Fanciullo », coronato Re impugna la « potenza vittoriosa su ogni potenza ». Egli indossa il « Vestimento di porpora tiria » (simbolo, fin dallo gnosticismo, per il « corpo di resurrezione »), « scintillante e fiammante, incapace di cangiamento e di alterazione; sul quale lo stesso Cielo, e lo Zodiaco, non hanno più dominazione e potere; il cui splendore radioso ed abbagliante sembra quasi comunicare all’uomo qualcosa di più che celeste, facendolo — quando lo contempla e conosce — stupire, tremare e fremere ad un tempo » [47]. Il paragone, anzi l’identificazione, con lo stato della corporeità supposto nelle essenze angeliche, è dichiarato: « L’uomo rischiarato non sarà di meno degli spiriti celesti, e sarà in tutto simile ad essi », epperò come questi non avrà un corpo terrestre corruttibile, ma uno celeste e incorruttibile, tale che nulla può recargli passione » [48]. Nella tavola undecima dell’Azoth di Basilio Valentino egli è raffigurato appunto come un Re che sta al centro dei pianeti e reca in mano il segno dell’impero universale (croce su sfera); ed egli dice: « Rilucente di grande chiarore ho vinti tutti i miei nemici, e da uno sono divenuto molti, da molti uno, disceso da illustre prosapia ... Unum ego sum, et multi in me » [49]. E’ lo stato, cioè, a cui compete il « plurale majestatis », il « noi » sacerdotale e regale, espressivo della conquistata condizione di « coscienza universale »: « Tutto in tutto ». Accenni di carattere quasi apocalittico, qua e là: estrazione di un magico mondo, stellare ed incorruttibile, “ assolutissimamente perfetto e perfettissimamente assoluto » da parte dell’ “Heroe”, ermetico (Della Riviera); e Basilio Valentino: « L’antico mondo non sarà più mondo: se ne farà un altro al suo posto, ed un pianeta avrà talmente consumato spiritualmente l’altro, che i più forti essendosi nutriti degli altri, saranno i soli rimasti tra tutti, e due e tre saranno vinti da uno solo » [50]. « L’occulto di- verrà manifesto e il manifesto occulto — l’invisibile, visibile e il visibile invisibile » [51]. Noi qui abbiamo inteso ritrovare la dottrina, e non anche giustificarla. Perciò non ci fermeremo ad analizzare che cosa possa essere concretamente un « corpo immortale ». Si riferisca, chi vuole, alla dottrina mahàyànica sul trikaya, ovvero al docetismo, ovvero allo stesso Corpus Hermeticum, che nel trattato sulla kòre kòsmou dice: « Fra un corpo immortale e un corpo mortale vi è una differenza: l’uno è attivo, l’altro è passivo — l’attivo domina, il passivo obbedisce ». Dominio, che deve intendersi integrale, epperò estendentesi anche su quegli clementi e su quelle funzioni del corpo, che nello stadio precedente obbedivano alla legge di corruzione. Da qui una via che porta sino alla credenza che certi esseri — come p. es. Elia e Enoch — « non sarebbero mai morti », nè sarebbe stato mai trovato il loro corpo. Ma anche tralasciando tutto questo, non ci è possibile fermarci che con un semplice accenno sulle fasi che nell’Opus Hermeticum procederebbero dalla realizzazione della « Pietra Filosofale » : la proiezione, la trasmutazione, la moltiplicazione — e questo, anche per la natura stessa del soggetto, fonte possibile di ancor più robuste « difficoltà a credere ». Ci limitiamo a ricordare il fondamento logico per tali operazioni. Se il tutto ha radice in un uno, « spirito » indifferenziato e vivente — giungere alla possibilità di un contatto diretto e attivo con un tale « spirito » (come pretendono coloro che, per « separazione » e « purgazione », dal loro mercurio hanno estratto un “mercurio allo stato puro”), e giungere altresì alla possibilità virtuale di un’azione diretta — ed in un certo modo incondizionata — su tutto ciò di cui tale spirito è substrato e fondamento. L’atto relativo, sarebbe la « proiezione »: onnipotente, perciò, a mezzo della « quintessentia, in cui le cose tutte hanno lo essere loro » (Lullo) [52]. Il Salmon, nell’introduzione alla sua Bibliothéque des Philosophes Chyiniques (1741, p. XIX) dice dei « Figli d’Ermete » : « Ci si riferisce che essi spiritualizzano i loro corpi, che si trasportano in breve tempo in luoghi molto lontani, che possono rendersi invisibili quando vogliono, che fanno molte altre cose che sembrano incredibili ». Si è già detto che il Sendivogio attribuiva loro le possibilità di una conoscenza libera dalle condizioni di tempo e di spazio; epperò Della Riviera analogamente riferisce la scienza divinatoria là dove « la monarchia dell’Heroe ha uccisa la morte » — oltre a porre l’» illuminazione » e 1’» esaltazione heroica » come primo frutto e ad alludere a certe in interpretazioni del « Non si vive di solo pane » di cui sarebbe interessante indicare la relazione a ciò che sta sotto alle varie dottrine sul « cibo di immortalità » : « ambrosia », « nettare », amrta, soma, e via dicendo. Di tutto ciò, ognuno può tenere il conto che crede, a seconda del suo personale punto di vista: un conto, ad ogni modo, che secondo giustizia non dovrebbe essere diverso da quello in cui suole tenere l’analoga Fenomenologia riferita dalle tradizioni più varie a tipi di asceti, di santi e di iniziati. Le presenti note vogliono soltanto indicare l’esistenza di un campo, sinora quasi del tutto ignorato e inesplorato. Sarà forse compito di una indagine ulteriore l’inoltrarvisi facendo indietreggiare l’ombra gittatavi da chi nella tradizione ermetico-alchemica non seppe vedere che lo « stato mitologico » del morto mondo della chimica moderna. E a quest’ordine di ricerche potrebbe aggiungersene un secondo, volto a studiare ciò che in un ambito più vasto — quello della cultura e della storia — abbia determinato con la sua presenza il filo segreto di tale tradizione. Queste ricerche per molti offrirebbero anzi, con probabilità, un interesse più largo di quello che la tecnica dell’» arte ermetica », presa in sé stessa, possa offrire: ma dobbiamo avvertire che qui il terreno è ancor più difficile, più pericoloso e più …ermetico; e su esso, per conto nostro, per ora non consideriamo opportuno il procedere. Per quanto riteniamo che la tradizione ermetica nei confronti di altre, egualmente celate fra le quinte della storia — sul tipo di quella dei « Fedeli d’Amore » (dato che si ritengano convincenti le argomentazioni in proposito del Rossetti, dell’Aroux e del Valli) — abbia avuto un carattere più speculativo che militante, più individuale che settario, più volto, sull’orma dei Misteri classici, ad un ordine di cose che si pone fuori della vita « profana », politica e filosofica compresevi — a malgrado questo, crediamo che la presenza enigmatica degli sparsi « Figli d’Ermete » non sia stata indifferente per la cultura e per la storia. Basterebbe indagare sulla relazione dell’ermetismo col templarismo (il simbolo ermetico del caduceo figura a « chiave » del famoso simbolo templare di Baphometh) ed ancora col misterioso movimento rosicruciano; basterebbe ricordare le inclinazioni alchemiche di un personaggio rappresentativo come Paracelso; ed infine che quei, che molti considerano come il padre della moderna speculazione tedesca — Jacob Bòhme — nel suo sistema dall’ermetismo ha preso non solo concezioni basilari (la sua dottrina del Sì e del No divino, per esempio, è un’adattazione di quella alchemico-ermetica delle « due nature » della « cosa unica »), ma persino la terminologia — per aver di già più di un filo conduttore per constatare anche in un campo più vasto l’azione nel mondo post-cristiano di quella che, secondo il nostro parere deve considerarsi come la continuazione diretta e l’erede legittima della tradizione degli antichi misteri mediterranei.

Note

1- Cfr. Colloquio del Re Kalid col filosofo Morieno, in Biblioth. des Philos. Chymiques, Paris, 1741, t. II, p.92 : “L’operazione che compie tutto il Magistero è un’operazione che non si fa con le mani”. Lo stesso dice Artefio (Libro di Artefio, in ibid., t. II, 162), che comincia a dichiarare che oggetto di tale operazione è la composizione dello spirito col corpo e la trasmutazione della natura dell’uno in quella dell’altro;

2- Cfr., per esempio, la Turba philosophorum, testo della traduzione italiana, in UR, 1928, n.29, p.287: “Intendimi, lascia queste Erbe, queste Pietre, questi Metalli e queste specie estranee, e prega Dio con tutto il tuo cuore affinché ti faccia essere dei nostri”. – e la III canzone dell’Ode Alchemica di Frà M. Crassellame (in Wirth, Simbolismo Ermetico, Paris, 1909; pp. 173-182), che ha per didascalia: “Si consigliano gli Alchimisti inesperti a desistere dalle sofistiche loro operazioni, tutte contrarie a quelle che n’insegna la vera Filosofia nella composizione della gran Medicina Universale”. Qui si hanno mordaci parole per coloro che “come farfalle affumicate, notte e giorno vegliano intorno a stolti fuochi” e il cui “credulo pensier si indora col fumo”;

3- Non v’è alchimista che non ripeta non essere gli “elementi” di cui parla quelli morti conosciuti dal volgare, sebbene quelli “viventi ed occulti”. Dice Basilio Valentino (Le dodici chiavi della Filosofia, 1. II, c. V): “Tutto ciò che l’ignorante reputa morto, deve vivere di una vita incomprensibile, visibile tuttavia e spirituale, e deve essere conservato in essa”. Su questa base la conoscenza della “filosofia naturale” viene indicata come la miglior via per la comprensione dell’Arte (cfr., per esempio, Zachaire, De la Philos. Naturelle des Mètaux, 1 e Trionfo Ermetico, B.P.C., t. III, p. 225) ;

4- Cfr. R. Guènon, La Crisi del mondo moderno, Paris, 1927, p. 107;

5- La nostra Aria e il nostro Fuoco – dice, per esempio, Bernardo Trevisano (De la Philos. Natur. Des Mètaux, in B.P.C., t. II, p. 401) – non sono « quelli che possono essere veduti dagli occhi corporali”. Lo stesso dice N. Flamel (Desiderio desiderato, VI), per tutti gli elementi;

6- G. Braccesco, La Esposizione di Geber philosopho, Venezia, 1551, f. 77b, Geber, Summa Perfect. Magist., in Magent, Bibl., Chem. Curiosa, Genevae, 1702, t. I, 557;

7- Ibid., f. 35°;

8- Libro di Artefio, in B.P.C., t. II, pp. 148-9. Cfr. Salmon, Intr. alla”B.P.C.”, pp. IV-V: “Essi non hanno scritto che per quelli che sono iniziati ai loro misteri, e per questo hanno intenzionalmente riempito i loro libri di enigmi e di contradizioni”;

9- Chimica Vannus, Amsterdam, 1666, p. 258;

10- C. Della Riviera, Il mondo magico degli Heroi, Milano, 1605;

11- A.J. Pernety, Dict. mytho-hermètique, Paris, 1758, p. 534;

12- Sendivoglio, De Sulphure, Venezia, 1644, p. 190;

13- Cfr. Maximus, Brevi note sul Cosmopolita, in Ignis, nn. 4-5 del 1925. Cfr. Della Riviera, cit., pp. 116, sgg;

14- E’ interessante, per esempio, J.V. Andrete, Die chemische Hochzetit von K. Rosenkreutz, Strasburgo, 1616;

15- N. Flamel, Desiderio desiderato, VI (B.P.C., p. 307, t. II);

16- M. Berthelot, Collect. des Anc. Alchimistes grecs, Paris, 1888, t. II, p. 143-4 ;

17- Testo della B.P.C., t. II, p. 5;

18- Spiegazione delle Figure Geroglifiche, in B.P.C., t. II, p. 237. Anche: Trionfo Ermetico, in ibid., t. III, p. 196;

19- Zachaire, cit., V;

20- Colloquio del Re Kalid con Moriano, cit., pp. 75,71;

21- Dict. mytho-herm., cit., p. VIII (Intr.). Cfr. Braccesco, cit., f. 25a : “Con quella operano gli sapienti, et da quella esce tutto, infino che si finisce…Sappiate che tutto questo non è altro che una cosa sola, la quale ha il padre et la madre, et il padre et la madre l’hanno creata et notrita, et essa è il suo padre et la sua madre”;

22- Cit., pp. 87-88;

23- Ibid., p.62. Cfr. Geber, Summa Perfectionis, 1. I, XVI (B.C.C., p. 528: “Nel nostro Magistero…l’imperfetto riceve da sè medesimo la perfezione, senza che vi si aggiunga nulla di estraneo”. Filalete, Le Filet d’Ariadne, Paris, 1695, p. 6;

24- Le dodici chiavi, 1. I (t. III, pp. 20-21);

25- Ci si può riferire, per esempio, alla tradizione del Buddha, detto “Maestro degli uomini e degli Dei”, a cui lo stesso Brahman rende omaggio; degli yogì, cui è detto obbedire la Trimurti; di Mithra, vittorioso del dio Sole; dei maghi egiziani, che non si peritavano di minacciar di distruzione anche i supremi fra gli Dei; a Giacobbe, trionfatore sull’Angelo, e via dicendo sino al concetto kabbalistico del “Signore dei Nomi” e hassidimico dell’Uomo quale “redentore della Divinità”;

26- Colloquio di Eudosso e di Pirofilo sul Trionfo Ermetico (B.P.C., t. III, p. 243): “Soltanto il Filosofo è capace di portare la Natura da una imperfezione indeterminata ad una superperfezione…Il Saggio deve cominciare con una cosa imperfetta, che essendo in via di perfezione, si trova nella disposizione naturale per essere portata a superperfezione col soccorso di un’arte tutta divina, la quale può superare il termine limitato della natura”;

27- Ibid., p. 275: “Un figlio di origine più nobile del Padre e della Madre che gli danno l’essere”. Pernety, Dict, mytho-herm., cit., p. 136: “Questo Fanciullo, secondo essi, è più nobile e più perfetto di suo padre e sua madre, benchè sia figlio del Sole e della Luna e la Terra sia stata la sua prima nutrice”. D’Espagnet lo chiama “Fanciullo regale dei Filosofi, più importante dei suoi genitori, e il cui scettro e la cui corona saranno comunicati ai suoi fratelli” (p. 266) – altri rettifica in “potenza sovrana su tutti i suoi fratelli” (Colloquio, ecc., cit., p. 255). “Fanciullo ermafrodito nato da vergine, fonte di una razza di Re potentissimi” (Dict., p. 522). Nel De Pharmaco Cattolico (III, 13) v’è l’espressione: “Magnipotens, stringente in mano il regno spirituale e quello mondano”, ecc;

28- Cfr., per esempio, Turba philosophorum, in B.P.C., t. II, p. 19; Pernety, cit., 299 e a voce “Incesto”; Flamel, fig. Gerogl., cit., p. 244, ecc;

29- E’ importante che già in questo mito misterico, per simbolo del congiungimento sia indicata la verga ermetica; come pure, da un altro lato, che nell’ermetismo medioevale sia stato dato il nome di Prometeo al “Solfo”, cioè al principio dell’individuale (Pernety, cit., p. 407). Per la relazione generale della tradizione ermetica con quella portata dai miti titanici e luciferini, cfr. KRUR 1929, n. 12; “L’Albero, la Serpe e i Titani”;

30- Testo naasseno apud Ippolito, Philos., V, I, 22. Zosimo in Berthelot cit., II, 213;

31- L’idea di argento si mutua spesso con quella di luminosità; e si potrebbe ricordare la relazione fra la “luce” e “vita degli uomini” indicata nel Vangelo di Giovanni, (I, 4), compresa nella natura luminosa attribuita al pràna (forza vitale) nella tradizione indù, e ritornante nel parlare di una esperienza di luce interiore e intellettuale da parte dei neoplatonici, allo staccarsi della mente e nel suo rientrare nel mondo di psychè. Il Braccesco (cit., f. 10a ) chiama il Solfo la luce del corpo;

32- Flamel, Des. Desid., cit., p. 317: “La Terra dei Filosofi è il loro corpo imperfetto, ed essa è chiamata Madre perché contiene e comprende tutti gli elementi”. De Pharmaco cath., III, 16 : « I Filosofi, fatta parola della terra, hanno inteso per essa nient’altro che il corpo…Chi afferri bene questo senso e si eserciti secondo le mie istruzioni, ritrova, in esso, tutte le cose in tutte, e analogamente tutte in un unico, ed un unico in tutte (reperit, in illo, omnia in omnibus: similiter,omnia in uno, et unum in omnibus)”;

33- Cfr., per esempio, B. Valentino, Dodici chiavi, ecc., cit., II, 8; B. travisano, La parole delaissèe, in B.P.C., t. II, p. 432, ove il Solfo è indicato altresì quale anima come elemento semplice della Pietra (del corpo). De Pharm. Cath., V, I. Pernety, cit., p. 90 (per lo speciale riferimento del corpo al simbolo del “metallo”); Trionfo Ermetico, cit., p. 302: “Vi sono tre sostanze differenti, principi naturali di tutti i corpi – sale, solfo e mercurio, che sono lo spirito, l’anima e il corpo”, Sendovigio, De Sulph., cit., p. 173: “Il corpo è la terra, lo spirito è l’acqua, l’anima è il fuoco, cioè il solfo dell’oro”;

34- Spiegazioni, come quelle della “caduta”, non figurano che per accidente nell’ermetismo. Per conto nostro, crediamo possibile risalire invece, attraverso un mito narcisistico dato nel Corpus Hermeticus ( I, 15-16), ad una spiegazione sul tipo di quelle offerte dalla tradizione orientale con i due fattori del non-sapere (adidyà) e della brama (tanha);

35- L’espressione “uccidere il vivo, risuscitare il morto” diviene un leit-motiv dei testi medioevali: Turba phil., cit., p. 17: “Uccidere il Vivo, vivificare il Morto; e vivificando il Morto, tu uccidi il Vivo, e uccidendo il Vivo vivifichi il Morto. E ciò è una sola cosa, e non sorprendente, perché egli stesso si uccide e egli stesso si vivifica” Pernety, cit., p. 237; ove il mercurio è chiamato “acqua dissolvente”, in cui il Re (il principio regale nll’Uomo – l’Anima) muore e resuscita. Cfr. p. 355, ove la separazione è indicata quale causa della trasformazione. B. Travisano, Phil. Nat. D. Mèt. T. II, 388 sgg. ; Filalete, Filet d’Ariadne, cit., p. 46 ; Introitus, ecc., XIII: “La loro Acqua è vivente e nello stesso istante che dà morte ad uno dei due principi, dà istantaneamente vita all’altro…L’oro, disciolto nel mercurio, è la putrefazione. Da questa putrefazione, che sembra una morte, ne esce un corpo nuovo della medesima essenza del primo, ma di una sostanza molto più nobile, che riceve diversi gradi di virtù”;

36- B. Valentino, Dodici ch.: L’8 chiave raffigura un seminatore, un cadavere coricato sulle spighe ed un altro che si leva dalla tomba – e porta la didascalia: “Una creatura celeste, la cui vita è nutrita dagli Astri, ed alimentata dai quattro Elementi, muore e poi si putrefa. Dopo di che gli Astri, a mezzo degli Elementi…ridaranno la vita a questo corpo putrido, affinché se ne faccia uno celeste, che si stabilirà nella più alta città del firmamento. Avendo fatto ciò, vedrai il terrestre interamente consumato dal celeste; e il corpo terrestre sempre in celeste corona di onore e di gloria”. Cfr. Azoth, alla tav. V, Trionfo Ermetico, p. 287: “La Pietra è un campo, che il saggio coltiva, ecc.”. Filalete, Introitus, ecc., XIII: “La stessa cosa (che il seme) avviene per il nostro Oro: da principio esso è morto o, meglio, la sua virtù vivificante è nascosta sotto la dura scorza del suo corpo…Non appena bagnato nella nostra acqua (che è come la terra in cui si putrefà), rinasce, prende vita e diventa l’Oro dei Filosofi (cioè anima rigenerata)”;

37- Cfr., per esempio: Zachaire, cit., p. 537; Turba cit., pp. 19, 52-55 (in un altro passo si aggiunge che il Figlio è molto più inesorabile con sua Madre, che non questa con lui nella fase precedente); Pernety, cit., pp. 220, 293, 449; Turba, 5-6: “Prima il Sole perderà la sua luce e la Luna farà la funzione del Sole – poi similmente la Luna si oscurerà…mare e terra si squarceranno, e i corpi che erano morti si leveranno dai sepolcri e saranno glorificati e avranno la faccia gloriosa e più radiosa di mille soli. E il corpo, lo spirito e l’anima saranno in unità, glorificati”. I Sette capitoli d’Ermete, 4, Artefio, cit., p. 131;

38- Flamel, Des. Desid., I: “Se non convertite la cosa corporea in incorporea, lavorate invano”. Cfr. VI, Artefio, cit., p. 134: “La pietra nostra comprende corpo, anima e spirito. O natura, come tu cangi il corpo in ispirito! Il che non sarebbe, se lo spirito non divenisse corpo coi corpi; e se con lo spirito i corpi non fossero prima stati fatti volatili, e se poi il tutto insieme non divenisse fisso e permanente”. P. 131: “In questa operazione il corpo si cangia in ispirito e lo spirito in corpo. Allora si fa amicizia…e unione fra i contrari, cioè fra corpo e spirito, che si scambiono le loro nature”. M. Potier, Philosophia pura, Francoforte, 1619, p. 64: “Il procedimento si esprime in queste due parole: Solve et coagula. Se per caso ti sembrassero troppo tronche, e neppure dette da filosofo, parlerò un po’ più ampiamente e facilmente: Solvere è convertire il corpo…in puro spirito. Coagulare è far di nuovo corporale questo spirito secondo il precetto del Filosofo, che dice: “Converti il corpo in ispirito e lo spirito in corpo”. Chi capisce queste cose , ha tutto, chi no, nulla”. Filalete, Filet d’Ariadne, cit., p. 51, 100: “L’operazione spiritualizza e volatilizza il corpo e il corpo corporifica e fissa lo spirito, che di sua natura è volatile: allora essi sono divenuti uno e non possono più venir separati, essendo insieme spirituali e corporali, ma di una corporeità spiritualizzata”. Chimica Vanus, cit., p. 264; Pharm. Cath., XII, 5: ove si parla dell’anima illuminata e svincolata dai gravami terrestri che si trasfonde per tutte le membra e il sangue, esercitando una universale operazione efficace, sino a sommo prodigio”. Pernety, pp. 262, 329. Comm. di Ortulano alla Tab. Smar., 9.Turba, p. 19, Artefio, p. 168;

39- J.Evola, Il valore dell’Occultismo nella cultura contemporanea; estr. di Bilychnis, numero 11 del 1927;

40- Cfr. C. S. Narayanaswami Ayar, Ancient Indian Chemistry a. Alchemy, Madras, 1925;

41- Cfr. W. Y. Evans-Wentz, The Tibetan Book of Dead, London, 1927, e l’articolo in proposito in UR, nn. 3-4 del 1928;

42- C. Puini, Taoismo, Lanciano, pp. 16-17;

43- A. Reghini, Le Parole Sacre, Todi, s. d., pp. 68-74; intr. alla Filosofia Occulta di Agrippa, Milano, 1926, v. I, pp. CXLII-CLII. Analogamente nel Corp. Herm., XIII, 14, si parla di una generazione secondo essenza (ousiòthes ghènesis) in un corpo che è incomposto e immortale; e i rinati secondo questa nascita sono detti Dii;

44- Zachaire, cit., V, p. 523 ;

45- Pernety, p. 428 : « Il recipiente è il corpo, e i vapori sono lo spirito »;

46- Artefio, p. 154: (I due principi) “non fanno più che una sola natura e un sol corpo rinnovato e risuscitato, per non più morire e restare immortale”; pp. 165, 168: “Corpo e spirito saranno ridotti alla stessa semplicità”, “corpo immortale vittorioso di tutti i suoi nemici” (p. 153). La “pietra” è innalzata a “vita perpetua” (Flamel, Par. abb., p. 321). La suprema dignità, inerente alla signoria delle due nature, è un tema che viene dal Corpus Herm. (X, 24-25; cfr. IV, 5; Asclep., IX, 4), ove l’uomo è esplicitamente dichiarato superiore agli dei per stringere in sè la legge di morte e quella di immortalità, la natura celeste e quella terrestre. L’essere la risoluzione del corpo la realizzazione suprema, è espresso dalla Tab. Smaragd.: “La sua potenza (del Telesma) è perfetta se convertita in terra”;

47- Flamel, Fig. ger.; alla VIII tav;

48- Basilio Valentino, Dod. Chiavi, alla VII tav. (t. III, p. 46). Cfr. Pernety, p.33;

49- In Manget, Bibl, Chimica Cur., cit. t. II, p. 215;

50- Cit., IX (p. 59);

51- Cfr. Corp. Herm., XIII, 3, 11: “Una visione semplice (àplaston) si è prodotta in me…Sono uscito da me stesso, ho rivestito un corpo che non muore…contemplo non con gli occhi, ma con l’energia intellettuale delle potenze (tè dià dynàmeon noetikè energheìa)…non più le cose come corpi secondo le tre dimensioni”;

52- Più difficile a far concepire sarebbe come per “proiezione” la virtù trasformativi possa esser depositata e fissata in certe sostanze corporee, quali le “polveri di proiezioni” e gli “elisir di rigenerazione” menzionati da certi testi. E’ la credenza stessa dei primitivi nella possibilità di una speciale saturazione di “mana” da parte di certi oggetti, i quali allora farebbero quasi da condensatori carichi di un potere magico latente. Questa credenza (che a dir vero resta lo sfondo arcaico da cui vengono dottrine, come quelle delle consacrazioni e delle imposizioni) è collegata a quella di una certa qualità spaziale ed esteriorabile della forza psichica, che in una certa misura è confermata dalle constatazioni della metapsichica moderna, e sulla quale sono interessantissime, ad ogni modo le cose che ha riferito A. David-Neel in una relazione sulle scuole psichiche tibetane fatta al Collegio di Francia e riprodotta in Die Christliche Welt, numeri 1-2-3 del 1928. 

   

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