Su Scienza Tradizione e Magia

Alessandro Orlandi (1)

Vorrei incominciare con questa mail una riflessione sul rapporto tra Scienza e Tradizione, un rapporto che può essere molto fecondo e stimolante, ma diventare anche estremamente fuorviante. Come esempi negativi cito ad esempio l’uso che della scienza viene fatto da molti movimenti New Age, come i Dianetici di Scientology o le  pseudo argomentazioni «olistiche» che ognuno di noi ha trovato in calce a qualsiasi nefandezza pseudo-tradizionale, argomentazioni che spesso fanno riferimento alla meccanica quantistica o alla teoria della relatività o alle moderne teorie cosmologiche, invocate per «spiegare» o «giustificare» mostruosi sincretismi senza capo né coda.

È indubbio che l’immagine che la scienza ha del mondo sia profondamente mutata nel corso degli ultimi cento anni. Per fare qualche esempio: la quadripartizione delle forze fondamentali che operano nell’universo a livello sia macroscopico  che microscopico in forza elettromagnetica, forza gravitazionale, interazione forte e interazione debole, assieme con le scoperte della meccanica quantistica sulla natura sia ondulatoria che corpuscolare delle particelle subatomiche e della luce e sulla centralità dell’osservatore nel determinare alcune caratteristiche del fenomeno osservato (indeterminazione di Heisenberg), hanno modificato profondamente il nostro concetto di causalità e ci hanno portato a concepire la «natura ultima» del mondo come statistica.

La teoria della relatività ci ha condotto a modificare profondamente la nostra concezione dello spazio, del tempo e della materia e, di nuovo, ci ha mostrato, sostituendo le trasformazioni di Lorentz a quelle galileiane, che il sistema di riferimento da cui si osservano i fenomeni può determinare dilatazioni o contrazioni dello spazio e del tempo e che è impossibile considerare separatamente tali categorie.

La nostra rigida concezione del tempo ha subito un duro colpo, è stata messa in crisi l’idea di simultaneità di due eventi, così importante nella consueta idea di causa… Alcuni (Hawking, persino Gödel in alcune sue pubblicazioni poco note degli anni ’40) hanno addirittura ipotizzato la possibilità di forti singolarità nel continuum spazio-temporale, di tipo diverso dai cosiddetti «buchi neri», che consentirebbero addirittura viaggi nel tempo… Per lo spazio tridimensionale è stata abbandonata la geometria euclidea a favore di quella riemanniana nella versione di Minkowsky... Uno spazio che «si incurva» in presenza di forti concentrazioni di massa, in cui la linea più breve tra due punti non è un segmento ma una geodetica. Anche la termodinamica ha dato il suo contributo e il secondo principio ci ha condotti a una visione dell’evoluzione dell’universo sempre più dominata dalla probabilità e sempre meno dal rigido determinismo, un universo condannato alla morte termica dalla crescita entropica.

Anche la matematica ha subito grandi rivoluzioni, il sogno di fondare un edificio logico coerente e completo, in cui tutte le asserzioni del pensiero razionale matematico trovassero posto discendendo da alcuni assunti fondamentali, il sogno di Hilbert, è andato in frantumi con le scoperte di Gödel. Molto è stato fatto da pensatori come Russell, Peano, Frege, Brower, Cantor, Dedekind, Von Neumann, Tarski, Wittgenstein, eccetera, per chiarire la natura degli edifici logici e delle proposizioni, delle regole di inferenza che li costituiscono, dei fondamenti su cui poggiano, dello stesso rapporto tra linguaggio e realtà, della natura del concetto di infinito. Abbiamo «sovrapposto» ai fenomeni del mondo reale modelli matematici sempre più sofisticati, dalla teoria delle catastrofi ai sistemi dinamici, dalla matematica del caos alla teoria dei frattali, alle teorie di Prigorgine sui sistemi dissipativi applicandoli a fenomeni fisici, chimici, sociali o biologici.

Alcuni hanno visto in tutto questo un segno evidente di «spiritualizzazione della scienza». Fritjof Capra nel suo Tao della Fisica traccia un grande affresco del rapporto tra scienza moderna e spiritualità orientale, comparando la concezione del mondo che emerge dalle teorie fisiche con le tradizioni induiste, buddhiste e taoiste. Il premio Nobel per la fisica Abdus Salam aveva fatto altrettanto tracciando un parallelo tra le teorie della fisica e la sua religione musulmana. Anche il premio Nobel per la chimica  Ilya Prigorgine (ad esempio nella «Nuova Alleanza») vede profilarsi all’orizzonte un nuovo umanesimo, una nuova possibilità di riconciliare la scienza con i valori fondamentali dell’uomo.

Infine, l’importanza assunta dalla rivoluzione informatica e dalle simulazioni della realtà nel «ridefinire» l’universo in cui viviamo è immensa. La rete del web annulla le distanze, rende coeve realtà fino ad oggi separate tra loro da abissi spazio temporali, scompone e ricompone come un puzzle qualsiasi produzione culturale, trasforma tutto in merce facilmente consumabile. In futuro ci attende il cyberspazio, oggi imperfetto e destinato a singoli individui dotati di casco e guanti, destinato per ora soprattutto ad attività ludiche e a ricostruzioni archeologiche o architettoniche. Domani ci darà la possibilità di una illusione completa di realtà, con odori e sapori annessi, e porterà a compimento un processo sottile iniziato nel Rinascimento: l’oggettivazione dei nostri fantasmi interiori, delle nostre forme-pensiero e l’eliminazione delle frustrazioni e delle limitazioni che arginano e  delimitano l’ego formando il carattere degli individui. Nulla ci impedirà di utilizzare in questo modo lo spazio, il tempo e la materia virtuali che caratterizzano il cyberspazio, nutrendo la nostra psiche di relazioni virtuali e gratificanti, commettendo delitti virtuali per sfogare rabbia e paura, dando vita a tutti gli «Io» inespressi che dormono in ognuno di noi. Chi impedirà a uno zoppo di farsi progettare un programma di realtà virtuale in cui è campione olimpionico dei 100 metri in corsa? Come già accade col web, il cyberspazio ci condurrà a restare sempre di più a casa, così un burocrate potrà espletare le sue funzioni o recapitare documenti senza che né lui né i suoi utenti si spostino da casa, i medici potranno operare da un continente all’altro, i musicisti tenere un concerto virtuale suonando in città lontane tra loro, complesse operazioni tecniche potranno essere portate a termine utilizzando un simulatore come interfaccia, la nostra «realtà ultima» finirà col diventare l’interfaccia con cui dialoghiamo, uno spazio-tempo fittizio su cui potremo non solo proiettare i nostri desideri, ma anche oggettivarli e animarli, intervenendo indifferentemente sulla realtà «esterna» o sui nostri sogni.

L’intento fondamentale che muove il pensiero scientifico è e resta quello di dominare la natura e di trasformare i desideri dell’uomo in realtà. L’ascesa della scienza, così come noi la conosciamo, è simultanea all’ascesa delle classi mercantili, riflette il bisogno  di pervenire a procedure certe e a modelli la cui finalità è quella di conformare l’universo ai desideri dell’uomo e, possibilmente, trasformare quei desideri in azione e in realtà. Il mondo che ci circonda è la risposta di Mefistofele ai desideri espressi da Faust.

Tutto è divenuto merce, spazio e tempo hanno perso del tutto la loro natura «oggettiva» e si avviano a diventare una lavagna bianca su cui potremo scrivere cosa accade nelle nostre giornate, modellando anche la nostra vita emotiva… Dal punto di vista psichico è in atto un processo di «rovesciamento» del nostro interno sull’esterno: le moderne tecnologie consentono infatti di «dare vita» ai vari Io che costituiscono la persona, oggettivando le cose immaginate a fini non solo ludici… Come si diceva, tra le ricadute positive di queste tecnologie c’è la possibilità di «agire a distanza» e le creazioni artistiche potranno essere concepite con fortissime caratteristiche interattive, in geografia, storia, archeologia o nelle scienze sperimentali è già possibile sperimentare direttamente attraverso modelli e simulazioni la visita a una tomba egiziana o gli effetti della forza di Lorentz su un elettrone ed è immaginabile un «cinema» a tre dimensioni, che si svolga nel cyberspazio e sia  a «trama variabile», determinata dalle interazioni che lo spettatore ha con i protagonisti dello spettacolo. Dal punto di vista epistemologico sarà sempre più difficile distinguere tra la realtà e l’«interfaccia» di cui ci serviamo per raggiungerla, tra le interfacce che toccano la realtà esterna e quelle che hanno come termine ultimo i prodotti della nostra fantasia. L’interfaccia si avvia a diventare un vero e proprio «filtro» interposto tra soggetto e mondo, un filtro che ridefinisce spazio, tempo e materia: lo spazio viene dilatato e contratto a piacimento attraverso la possibilità di azione a distanza, il tempo può essere dilatato e contratto artificialmente (cosa facilissima in un cyberspazio) e i «viaggi nel tempo», intesi come assistere virtualmente ad eventi storici del passato o a ricostruzioni fedeli, indistinguibili dall’originale, di luoghi e città ed epoche scomparse divengono possibili, così come diverrà possibile vivere «eventi» virtuali in cui il tempo viene rallentato o accelerato a piacimento: un istante tra la nascita e la morte, come nelle vite che il dio Vishnu fa vivere ai suoi iniziati per mostrare loro l’illusorietà delle incarnazioni terrene. La materia diviene invece una astrazione determinata dai parametri che regolano le  forme e i rivestimenti della realtà virtuale. 

 Dato lo spazio che erotismo e pornografia occupano su internet non è difficile prevedere che esisteranno programmi interattivi nel cyberspazio che ci consentiranno di conquistare, nei panni di Indiana Jones, la donna dei nostri sogni, magari col volto di Kim Basinger, il corpo di Marilyn Monroe e l’intelligenza di Marie Curie… La cupa realtà prospettata da film come Matrix o The Truman show è già in atto, dietro gli slogan pubblicitari e la spinta a consumare che ci divora, dietro la futura possibilità di chat lines in cui gli io fittizi che potremo creare non si limiteranno a nick e nomi di fantasia ma saranno dotati di  corpi e sensazioni… È accaduto che in seicento anni l’interno dell’uomo si sta rovesciando al suo esterno come un guanto,  rivelando come un secchio della spazzatura i detriti nascosti della psiche, stiamo apprendendo, come ogni apprendista stregone che si rispetti, a incarnare le nostre forme pensiero e farle camminare in giro per la terra… Chi saprà fermarle? Chi ci salverà dal delirio di onnipotenza? Ogni buon lettore di fiabe sa che quando il Demone racchiuso nella bottiglia esaudisce i tre desideri, dietro il prodigio si nasconde sempre qualche terribile inganno... Come Faust dovremo essere capaci di salvarci all’ultimo, giunti sull’orlo del precipizio… Dovrà esserci sempre qualcuno che combatte per riaffermare il principio di realtà, per sgradevole o brutta che questa possa essere.

Allora, credo, noi non dovremmo guardare alle creazioni della scienza, ingenuamente, come ad Ombre proiettate sulle pareti della caverna di Platone, capaci di condurre  l’uomo dal mondo sensibile al mondo degli archetipi. Non  dovremmo fidarci ciecamente delle forme-pensiero prodotte in questi secoli per «spiegare» il mondo. Le creazioni della fisica, dai quark alla teoria delle stringhe, sono affascinanti e colpiscono la fantasia, ed è accaduto che fisici scrivessero libri con grandi psicoanalisti (Jung e Pauli sulla sincronicità) o con yogin indiani (Bohm con Krishnamurti)… Ciò non ci esime tuttavia dal chiedere a noi stessi chiarezza su quale è l’intento della scienza e quale è l’intento della Tradizione.

Due intenti opposti: in un caso conoscere l’universo per trasformarlo e adattarlo alle esigenze dell’uomo, nell’altro conoscere l’universo, e l’uomo come parte di esso, per trasformare l’uomo. Le teorie scientifiche non devono mai diventare «congegni» da adorare e da utilizzare indiscriminatamente per interpretare la realtà, hanno un loro dominio di applicabilità.  Del resto, nel Settecento sembrava che per «spiegare» un fenomeno fosse sufficiente costruire un automa o un meccanismo che ne illustrasse le relazioni interne di causa-effetto in termini di interazioni meccaniche. Oggi questo modello è entrato completamente in crisi. Non è quindi il caso di affidarci alla scienza per «giustificare» gli insegnamenti tradizionali. No. Dovremmo, invece, riconsiderare il modo in cui la Tradizione tratta la téchnē di cui si serve, la magia tradizionale e i riti. Ogni Tradizione prevede delle modalità particolari per trasformare l’uomo e la sua realtà (interiore o esterna non importa). Approfondire questo punto significa comprendere il rapporto che intercorre OGGI tra scienza e Tradizione.

Nelle culture nelle quali è viva la nozione del sacro, le condizioni materiali dell’uomo sono interpretate alla luce di ciò che egli percepisce come «leggi cosmiche». Gli aspetti fondamentali dell’esistenza sono scanditi dai riti sacri e dai miti che li costellano. Tanto i riti che i miti hanno lo scopo di collegare ogni nuova azione ad un archetipo primordiale che deve conferirle senso e realtà annullando e rifondando il tempo (cfr. ad es. Sacro e Profano e Il mito dell’eterno ritorno di Mircea Eliade). Si vuole in tal modo mostrare che ciò che l’uomo si accinge a fare nel mondo mutevole in cui vive è già successo nel mondo degli dei, o dei progenitori mitici, o degli archetipi, all’inizio dei tempi, e che la situazione attuale, in quanto ripete l’azione primordiale, ha un senso ed eredita magicamente il «potere del fare». Ogni azione è, anzi, concepibile come un modo per far emergere l’ordine dal caos, in forza della sua somiglianza con qualche archetipo celeste. Così vi sono luoghi e lassi di tempo «sacri», il cui destino è quello di stabilire un contatto tra le vicende umane e la divinità. In una civiltà arcaica, nei periodi consacrati a quei luoghi e lassi di tempo vengono compiuti riti, rievocati miti, che riattualizzano ciclicamente i principali aspetti della vita sociale, facendoli «partecipare» di un archetipo (coltivare la terra, battersi in guerra, raggiungere la pubertà, unirsi in matrimonio, generare figli, catturare prede durante la caccia, ammalarsi e morire) mimandone l’emersione, per la prima volta, dal caos indifferenziato del senza-forma ad opera di un Dio o di un mitico progenitore. Questo meccanismo di ri-attualizzazione funziona come un vero e proprio bagno purificatore, come un’immersione nelle acque del Nulla che permette alle forme delle azioni di ricevere il senso, la vita e la realtà da parte di un Logos primordiale incorrotto e incorruttibile dal tempo.

Chiunque sia immerso in una simile visione del mondo ha una nozione del proprio «esserci», un’immagine di se stesso, un senso dell’io molto meno rigido e delimitato di quello che caratterizza l’uomo moderno. Tutto ciò che è percepibile ed ha esistenza nell’uomo si fonda, secondo tale visione, su un principio omologo fuori di lui e viceversa, la coscienza non è qualcosa di dato a priori, ma consiste in un precario equilibrio, in un bilanciamento tra due poli, uno interno e uno esterno, che si definiscono e si individuano a vicenda. Per di più esiste sempre la possibilità che la coscienza segua il filo invisibile che unisce il nostro interno all’esterno e che ci si possa perdere «risvegliandoci» smembrati in ciò che ci circonda. È all’interno di questa percezione dei rapporti tra persone e cose che occorre inquadrare i riti iniziatici e le varie tecniche e pratiche magiche. Da tale punto di vista la condizione umana è caratterizzata da uno squilibrio tra le varie polarità, tra i dualismi che caratterizzano ogni individuo, da una cecità che impedisce al gemello Io di rispecchiarsi nel suo opposto polare, il mondo. La conoscenza e la sapienza non sono allora sinonimi dell’accumulare nozioni e leggi generali per controllare la natura e assoggettarla ai propri desideri. Conosce, invece, chi sa trasformare se stesso fino a rendere le leggi che regolano il suo microcosmo interiore identiche a quelle che governano il macrocosmo. È sapiente chi ha riconosciuto quelle leggi ed ha appreso come applicarle a se stesso. Il rito iniziatico, che è poi la trasmissione di una influenza spirituale, ha appunto il senso e  lo scopo di sancire un passaggio di stato, un passo della coscienza individuale sulla strada dell’armonizzazione di sé con il cosmo, dell’individuazione del tutto nella parte. Questo cammino prevede per solito due fasi successive. La prima consiste nella presa di coscienza del proprio «doppio», nella relativizzazione del proprio status individuale, nel riconoscere il proprio «gemello esterno», nella percezione che le caratteristiche del singolo, il suo collocarsi nello spazio e nel tempo, l’epica personale, non hanno esistenza propria. Sono nulla. Questa fase non può che concludersi con la morte simbolica dell’individuo, con la distruzione di ogni sua identificazione con la maschera-persona dalle cui ceneri dovrà nascere un nuovo uomo. A questa fase ne segue un’altra, di ascesa verticale verso le realtà sottili. Il superamento dei dualismi è interno come esterno: all’uomo accade ciò che egli vuole ed egli vuole ciò che gli accade. La spiritualizzazione del corpo e la corporificazione dello spirito perseguita dalle iniziazioni renderà presenti alla coscienza verità prima inattingibili, verità che ora possono essere vissute, incarnate.

Ogni linguaggio iniziatico dichiara origini sacre primordiali e non umane, che vengono situate al di fuori dal «divenire» e descritte attraverso i suoi miti specifici. Secondo tale modo di vedere i simboli ricevono il loro senso (e il loro potere unificante della coscienza) in virtù di questo legame con la trascendenza e la stessa organizzazione iniziatica ritiene di rispecchiare l’ordine cosmico, che si sarebbe «trasferito» nel suo ordinamento gerarchico (il che si presta a facili degenerazioni, come purtroppo ognuno può constatare).

Chi occupa un dato posto nell’ordinamento gerarchico potrà, indipendentemente dal suo valore individuale, espletare determinate mansioni a nome dell’organizzazione iniziatica. In tali occasioni egli avrà esistenza solo in quanto «trasmettitore», rappresentante della tradizione. (È analogo, dal punto di vista essoterico, il caso del sacerdote scomunicato le cui messe hanno tuttavia, qualora celebrate, valore sacramentale.) Questa visione delle cose appartiene alla maggior parte delle organizzazioni iniziatiche passate e presenti (Rosacroce, Massoneria, Compagnonaggio, Martinisti) e a molti culti misterici del passato (Misteri Eleusini, di Dioniso, di Mitra, di Attis e Cibele, Zoroastrismo ecc.). Non è dato, poi, mescolare tra loro i riti di più tradizioni. Solo la Forma che si attenga all’insieme dei dettami di una e una sola tradizione può ricevere in sé l’energia spirituale e trasmetterla. L’iniziando ha o non ha in sé le qualità necessarie per avvicinarsi ai «Misteri». In caso negativo egli non potrà aspirare alla trasmutazione di sé in «Uomo Universale» per quanto sforzi il suo intelletto. (Su questi temi cfr. Guénon, Aperçus sur l’initiation.) Se egli è invece «predestinato» sarà la Provvidenza a mandargli, in seguito ai frutti del suo lavoro interiore ed esteriore, un segno che egli dovrà riconoscere. Per una serie di apparenti coincidenze egli entrerà allora in contatto con l’organizzazione iniziatica. Dal punto di vista di tali organizzazioni, chi svolge il proprio cammino in modo anarchico, il mistico, non può andare oltre un modesto grado di consapevolezza di sé, di armonizzazione dei contrari, se si eccettuano casi rarissimi di iniziati discesi per portare il Verbo (tale è il caso di Buddha, Cristo, Maometto o Lao Tze). I miti, i riti, i simboli, per loro stessa essenza non possono venire «modificati», pena il degrado ciarlatanesco della organizzazione iniziatica. La  configurazione complessiva di miti e riti è infatti ciò che mantiene in essi «l’influenza spirituale». Vi sono forme «esoteriche» dei riti con cui solo l’iniziando o l’iniziato possono entrare in contatto. Non si viene iniziati solo perché si apprende l’uso o il significato dei simboli e dei riti di una data Tradizione, ad esempio leggendoli sui libri. L’iniziazione consiste nella trasmissione di una «influenza spirituale» e, perché ciò avvenga, bisogna che il luogo, il tempo, i modi e i veicoli attraverso i quali tale influenza si propaga siano «carismatici», cioè mantengano intatta la loro aura. Sottrarre riti e simboli dal loro contesto sincronico, dal loro hic et nunc, significa pervertirne il senso. Lo scopo dei riti è quello di creare una corrente di comunicazione tra l’umano e il non umano. Il rito è visto, in una iniziazione, come un vero e proprio insieme di mezzi «tecnici» per entrare in contatto col sacro. Chi viene iniziato sperimenta un bagno purificatore, fonte di vita e di rinnovamento e, come accade nel processo alchemico, deve passare attraverso l’infimo per raggiungere il supremo, recuperare ed integrare l’infantile animale arcaico per poter ascendere alla condizione mistica di homo maximus. Alcuni riti iniziatici vengono compiuti una sola volta nella vita di un dato individuo e la loro influenza è ritenuta definitiva e non può essere più revocata, quali che siano le modificazioni successive di colui che li ha compiuti (il battesimo e il sacerdozio sono un equivalente essoterico di ciò nel cristianesimo),  l’influenza spirituale perdura anche dopo che, eventualmente, l’iniziato si sia allontanato materialmente dai luoghi e dai ministri del culto a cui aveva aderito.

C’è un parallelismo tra il modo in cui operano i simboli e i riti: i riti sono una successione spazio-temporale e dinamica di simboli e azioni simboliche. Da tale punto di vista il rito non è altro che un insieme ordinato di simboli, il cui ordito è ciò che conferisce potere al rito, sintonizzandolo con una configurazione archetipica da cui eredita o riceve magicamente il suo carisma. Il mito consiste invece in un insieme di simboli (tramandati mediante tradizione orale e scritta, pittura, scultura, ecc.) i quali possono avere differenti gradi di influenza sull’iniziando, a seconda di come vengono ordinati e interpretati. Nel mito, in altri termini, vi è un rito in fieri ed anzi, (dato che lo stesso mito può essere penetrato con diversi livelli di profondità in tempi diversi), più riti in fieri.

Il rito costituisce un mezzo, uno strumento per entrare in contatto col sacro, anche se l’officiante non ne comprende veramente il senso. Il Mito, invece, che deriva dalla radice mu e dal latino mutos, muto, si fa rito solo nella misura in cui chi lo utilizza ne ha disvelato il senso profondo, possedendo le qualificazioni interiori per interpretare i simboli che lo costituiscono, orientandosi nel labirinto delle immagini e distinguendo il tracciato che conduce alla meta dalle vie senza uscita. L’essenziale del mito è ciò che il mito tace, l’analogia nascosta che, se viene svelata, rende attivo il mito, gli conferisce quel potere evocativo che il rito possiede già intrinsecamente. Potremmo anche dire che il mito agisce dall’interno mentre, il rito, dall’esterno.

Nella rappresentazione che molte Tradizioni fanno di cielo e terra viene asserita l’esistenza di più «piani o livelli di realtà» considerati i molteplici modi in cui l’Uno si manifesta. Il livello di realtà che i sensi e la razionalità ci fanno percepire viene considerato il più basso, quello più legato al mondo della materia. Accanto a tale livello, si afferma, ve ne sono molti altri detti «sottili» che divengono percepibili dopo che l’uomo, anche per mezzo di simboli, riti e miti, si reintegra nello «stato primordiale» di armonia con il cosmo. Questi livelli sottili, lungi dall’essere di per sé migliori o più desiderabili della realtà ordinaria, a cui accediamo mediante i sensi e la razionalità, sono invece sede di forze ed energie di ogni tipo. Chi non abbia conseguito una condizione di armonia interiore, di vittoria sulle pulsioni egoiche e autoaffermative, di contatto profondo con il proprio Sé, può benissimo ricercare egualmente ed ottenere contatti con le «forze sottili», ma espone allora se stesso e gli altri a gravi pericoli. Infatti, chi così opera, di solito non adopera, ma viene adoperato da forze che non conosce ed è passivamente esposto ad influssi di ogni segno.

Vi è poi il caso della «contro-iniziazione», una via che conduce al totale decentramento dell’essere, praticata da chi ricerca il potenziamento dell’Io anziché la sua dissoluzione, da chi ricerca un dominio delle forze sottili finalizzato alla volontà di potenza e si propone come obiettivo non l’armonizzarsi col cosmo, ma il dominio e la trasformazione del cosmo al fine di adattarlo ad un Ego immobile ed ipertrofico. In tal modo viene perseguita una via opposta a quella iniziatica, di allontanamento progressivo dal Centro, dalla condizione di Uomo Universale, ottenuta potenziando i legami che avvincono ai livelli più bassi dell’essere. Scriveva Elémire Zolla in Uscite dal mondo: «Nelle iniziazioni maligne l’Io deve affrontare  sacrifici come nelle altre, ma, qui la differenza, esse non mirano alla sua completa estinzione, ne isolano anzi un nucleo fatto di purissima vendicatività verso il cosmo, di vampiresca brama dell’altrui vita, di furibonda e nuda volontà. A questo nucleo il tremendo sacrificio è fatto, la mutilazione di ogni altra parte dell’uomo dedicata»... L’Io diventa così un feticcio che viene elevato al di sopra dello stesso destino personale e delle circostanze... Torniamo ora al punto di vista dell’iniziato. Per lui simboli e riti sono legati a un progetto di trasformazione di se stesso. Questo  uso cosciente delle «forze sottili» presuppone un rapporto organico con la Tradizione. In questo contesto la magia è vista come una «scienza tradizionale» che sottende lo svolgersi dei riti e la capacità di risvegliare il potere di trasmissione di simboli e miti. Inoltre l’atteggiamento che l’iniziato ha di fronte ai simboli è quello di ritenerli la vera realtà, l’essere, mentre le cangianti immagini che provengono dal mondo sono solo riflessi di quella realtà immutabile e atemporale. Così, mentre la contro-iniziazione e la scienza profana utilizzano i simboli per controllare le immagini del mondo, considerate come la vera realtà, l’iniziato fa esattamente il contrario: per mezzo della magia tradizionale egli cerca di trascendere immagini e stati di cose per giungere alla vera realtà dei simboli, gli archetipi alla cui forza vivificante vuole attingere. Questo modo di vedere le cose, che appartiene agli insegnamenti religiosi e tradizionali di tutta la terra, è paradossalmente identificato dal pensiero occidentale come «la filosofia di Platone».

Dobbiamo quindi immaginare una scienza tradizionale che studia le forze sottili con intenti opposti a quelli con i quali la scienza fisica «profana» si occupa delle forze materiali.

In questo contesto i «poteri psichici», la capacità di produrre «fenomeni miracolosi» (guarigioni, chiaroveggenza, telepatia, telecinesi, ecc.), di dominare e controllare gli altri ed estendere le percezioni a modalità che trascendono i sensi non facilitano il cammino spirituale di un uomo ma, anzi, lo ostacolano. Sia chi fa ricorso alla magia, sia chi è dotato di «facoltà paranormali» operano nel medesimo dominio: il primo fa ricorso a una téchnē, il secondo fa ricorso alle proprie doti naturali. Dal punto di vista dell’iniziato tutto ciò non avvicina di un solo passo né l’uno né l’altro ad una evoluzione spirituale, ma anzi si crea l’illusione di essere molto avanti in una strada che non è mai stata nemmeno intrapresa. Infatti i «poteri» sono altrettanti ostacoli lungo il cammino spirituale, legami che inchiodano al piano materiale, alla dimensione dell’individualità. È precisamente un vero e proprio rifiuto dei propri «poteri»  la prova richiesta per progredire lungo la strada dell’iniziazione, dimostrando di preferire la ricerca della conoscenza ai «poteri». A questo proposito gli Yoga Sutra di Patanjali, un’opera che tratta appunto lo sviluppo dei poteri da parte dello yogin, prescrivono la rinuncia a tali poteri come condizione imprescindibile per la propria evoluzione spirituale.

Vediamo ora quali sono i tratti essenziali comuni ai linguaggi magici così come vennero, a torto o a ragione, determinati da Frazer nel Ramo d’oro e da Hubert e Mauss in Schizzo di una teoria generale della magia.

Occorre anzitutto operare una distinzione tra la magia connessa ai «riti di trasmissione» e   quella connessa ai «riti di generazione».

 

(1) - RITI DI TRASMISSIONE

Sono riti il cui scopo è quello di costringere poteri occulti e proprietà a trasferirsi da un oggetto ad un altro. Il tipo di magia che fa uso di tali riti prende il nome di «magia simpatica». I riti della magia simpatica sono ulteriormente suddivisibili in riti di contagio e riti imitativi od omeopatici. I riti di contagio muovono dal principio astratto che tra ciò che accade alla parte e ciò che accade al tutto vi sia corrispondenza «simbolica» e che, inoltre, operando simbolicamente sulla parte si ottengano corrispondenti effetti reali sul tutto. Il termine «parte» va inteso nell’accezione più larga possibile, nel senso che due oggetti che sono stati a contatto, continuano ad agire l’uno sull’altro anche quando il contatto è cessato. Per fare qualche esempio su persone e cose: gli stregoni delle isole Marchesi prendono i capelli, la saliva o qualche altro elemento di un uomo di cui desiderano la morte e li seppelliscono in una borsa di fibra, accompagnando questa operazione con complessi riti. Così facendo la vittima del maleficio muore lentamente e il peggio può essere scongiurato solo se qualcuno disseppellisce il contenuto della borsa. (Del tutto analoghe erano le defixiones degli antichi romani.) Così, gli Apache per ottenere la pioggia lanciano acqua sulle rocce e gli indiani Otawa sostengono che: «ogni fiamma contiene il fuoco, ogni osso di morto, la morte».

I riti imitativi muovono dal principio «similia similibus», che vi sia cioè una attrazione tra cose «simili». Questo principio funziona sia come principio di attrazione: una cosa richiama a sé tutto ciò che le «assomiglia», sia come principio di imitazione: una serie di operazioni simboliche compiute su un oggetto hanno effetti simili su un altro oggetto con la stessa configurazione. Nelle cosiddette fatture, i danni e le torture inferte ad un pupazzo di cera o di stoffa o a una mandragola si trasferiscono sui nemici della fattucchiera che così opera (utilizzando spesso simultaneamente riti di imitazione e di contagio con l’attaccare al pupazzo capelli o unghie della vittima designata). D’altra parte l’imitazione può procedere pure per contrari, a seconda di come le analogie vengono percepite. Ciò conduce a una questione fondamentale: ogni oggetto è assimilabile per analogia ad un numero pressoché infinito di altri oggetti. Il rito magico quindi «privilegia» alcune analogie tra quelle possibili e, in differenti culture, i medesimi riti possono avere effetti opposti (ad esempio, gettare acqua sul terreno può significare impetrare la pioggia in una cultura e la siccità in un’altra). In effetti non esiste una «somiglianza oggettiva» tra le cose. La somiglianza vive nell’occhio di chi la percepisce, nel liguaggio e nelle tradizioni di una data cultura. Per riassumere si ha il seguente schema:

   magia omeopatica <-------MAGIA SIMPATICA------> magia di contagio

 

(2) I RITI DI GENERAZIONE 

Sono così definiti i riti il cui scopo principale non è quello di «trasferire proprietà da un oggetto ad un altro», bensì di creare proprietà ex abrupto, produrre fenomeni dal nulla. Tali riti sono essenzialmente di tipo verbale e la loro riuscita è legata al pronunciare le parole o il canto rituale, svolgendo in modo corretto le dovute operazioni. I riti di generazione, se compresi in profondità, rientrano in realtà nel caso precedente. Infatti ciò che viene realmente creato nei riti di generazione è un insieme di simboli, un insieme di suoni, di gesti o di lettere su cui si opera. Questi dati sensibili rivestono il ruolo che nei riti di trasmissione spettava all’oggetto «simile» a quello sul quale si voleva operare magicamente. Ritroviamo quindi lo stesso principio similia similibus, ma ad un livello più astratto. Mentre nei riti di trasmissione il mago opera come chi allacci un filo (l’analogia) tra due poli di segno opposto, da lui connessi in modo invisibile, nei riti di generazione un polo è la raffigurazione simbolica di ciò che si vuole ottenere, un insieme ordinato di parole, gesti o suoni, l’altro polo è l’oggetto della raffigurazione che viene «pescato» nell’empireo delle idee e costretto a manifestarsi nella realtà.

Ciò che vi è di essenziale in ogni rito magico, nei limiti nei quali la scienza può occuparsene, è da una parte l’uso di qualche linguaggio, raffigurazione o analogia, dall’altra la convinzione che immagini, linguaggi e analogie possano invertire il loro rapporto energetico con la realtà e che, anziché formarsi dalla realtà per astrazione, sia la realtà a potersi formare dalle immagini e dalle parole.

L’etnologia, la storia delle religioni e l’antropologia culturale, volendosi occupare dei fenomeni cosiddetti magici e di ciò che è connesso con la sfera del sacro, si dibattono in una contraddizione insanabile, generata dal voler mediare la visione del mondo e i criteri di verità delle culture arcaiche con quelli della scienza moderna. Nel 1944, Ernesto De Martino pubblicava Il mondo magico e, parlando dell’imbarazzo e delle difficoltà in cui si imbatte il ricercatore che si proponga di verificare la realtà dei fenomeni magici e paranormali scriveva:  «Nella nostra esplorazione del mondo magico noi dobbiamo dunque cominciare col sottoporre a verifica proprio il presupposto “ovvio” della irrealtà dei poteri magici, cioè dobbiamo determinare se e in quale misura tali poteri sono reali. Ma ecco che una nuova difficoltà si fa innanzi, complicando estremamente ciò che sembra in ultima analisi una modesta questione di fatto, un semplice problema di accertamento. Quando ci si pone il problema dei poteri magici, si è tentati di presupporre per ovvio cosa si debba intendere per realtà, quasi si trattasse di un concetto tranquillamente posseduto dalla mente, al riparo da ogni aporia e che il ricercatore debba “applicare” o meno come predicato al soggetto del giudizio da formulare. Ma per poco che l’indagine venga iniziata e condotta innanzi, si finisce prima o poi col rendersi conto che il problema dei poteri magici non ha per oggetto solo la qualità di tali poteri, ma anche il nostro stesso concetto di realtà e che l’indagine coinvolge non soltanto il soggetto del giudizio (i poteri magici) ma anche la categoria giudicante (il concetto di realtà)». [De Martino, op cit., cap. 1.] Più oltre, tentando una soluzione acrobatica del problema egli dice: «… Noi possiamo anche tradurre questa vicenda nel nostro linguaggio culturale e dire, per esempio, che gli spiriti sono esistenze seconde o proiezioni e personificazioni di affetti; ma nel mondo storico che è loro proprio gli spiriti sono reali così proprio come vengono figurati e sperimentati dalla “credenza”, e solo un nostro malinteso polemico li può abbassare ad “immaginazioni arbitrarie”. Alla domanda: “Gli spiriti ci sono?”, la risposta sarà dunque la seguente: “Se per realtà si intende il dato deciso e garantito del nostro mondo culturale, gli spiriti non ci sono. Ma se riconosciamo una forma di realtà che nel corso del dramma esistenziale magico storicamente determinato emerge come riscatto di una presenza in rischio in un mondo in rischio, dobbiamo altresì accogliere la realtà degli spiriti per entro la civiltà magica. In questo senso gli spiriti non ci sono, ma ci sono stati, e possono tornare nella misura in cui abdichiamo al carattere della nostra civiltà e ridiscendiamo sul piano arcaico dell’esperienza magica”.». (De Martino, op. cit., cap. II.)

Come rileva divertito Eliade, in un breve saggio sul Mondo magico di De Martino, questo modo di ragionare, se spinto alle estreme conseguenze, porta alla conclusione schizofrenica che coesistano due realtà e due mondi che sembrano negarsi a vicenda. Uno è quello di Galileo, Newton e Cartesio, un mondo in cui le leggi della fisica e delle altre scienze sono l’unica forma di conoscenza vera e possibile sui fenomeni, l’altro quello degli sciamani primitivi, un mondo in cui i fenomeni magici accadono effettivamente, gli incantesimi sortiscono gli effetti voluti, è possibile il volo e la comunicazione con l’aldilà, il parlare con gli animali, camminare sul fuoco, sdoppiarsi, vedere passato e futuro, riflettersi in uno specchio.

Un’altra possibile impostazione del problema è quella proposta da Erich Neumann che, in Storia delle origini della coscienza, parlando dei riti connessi alla caccia nei popoli primitivi dice: «Anche se possiamo stabilire scientificamente che un influsso oggettivo del rito sulla selvaggina è inverosimile, ciò non implica affatto che il rito magico sia basato sull’illusione, sia infantile e semplicemente una modalità di pensiero basata sul desiderio. Infatti l’effetto magico del rito è reale e non illusorio. Esso inoltre influisce sul successo nella caccia, come ritiene l’uomo; solo che esso agisce non sull’oggetto ma sul soggetto. Il rito magico, come ogni magia e anche ogni intenzione superiore, comprese quelle della religione, agisce sul soggetto che pratica il rito magico o religioso trasformando e aumentando la sua capacità di azione. In questo senso l’esito dell’azione, della caccia, della guerra, ecc., ha senz’altro una dipendenza oggettiva dall’effetto del rituale magico. Il fatto che la magia operi nella realtà dell’anima e non nella realtà del mondo, è una scoperta successiva della psicologia moderna: all’inizio la realtà dell’anima era proiettata su una realtà esterna. Ancor oggi per esempio, le preghiere per la vittoria non sono intese come una modificazione endopsichica, ma come un modo per far intervenire Dio. Nello stesso modo è vissuta la magia della caccia, come un influenzamento della selvaggina e non del cacciatore. In entrambi i casi il nostro atteggiamento razionale e illuministico, orgoglioso di aver dimostrato scientificamente che l’oggetto non può essere influenzato, fraintende la magia e la preghiera come una pura illusione. E questo è un errore, perché l’effetto, che consiste in un cambiamento del soggetto, è oggettivo e reale». (E. Neumann, op. cit., pp. 188-189.)

Il fatto è che la principale preoccupazione degli scienziati sembra essere quella di mettere a punto tecniche che garantiscano la riproducibilità e la falsificabilità dei fenomeni di cui si occupano. Dal punto di vista di uno scienziato, quindi, i  fenomeni inerenti la sfera del sacro o del «paranormale» possono essere presi in considerazione se sono riproducibili e falsificabili, mentre la caratteristica principale di tali fenomeni è di essere indissolubilmente legati al luogo e al momento in cui si verificano e alla loro valenza simbolica, al loro rivolgersi a una persona particolare in un momento particolare. L’aspetto fondamentale, insomma, sembra essere «l’aura» del fenomeno, il suo hic et nunc, la sua unicità, il suo collegarsi con un insieme di stati di cose con la funzione di «indicare» aspetti archetipici e simbolici, quindi proprio la sua non-riproducibilità.

Non si può, infine, non ricordare a quali rischi si espone oggi chiunque si interessi di fenomeni parapsicologici o attinenti la sfera del sacro. L’inquisizione riuscì a cancellare in poco più di un secolo e mezzo l’immagine di Diana-Perchta dai riti per la fertilità, resti di culture tradizionali ormai dimenticate, sopravvissuti nelle tradizioni popolari europee, trasformandoli in sabba stregoneschi e in riti di adorazione del diavolo. Ciò non avvenne solo nel senso che nel senso comune erano divenuti tali, ma questa trasformazione si compì anche dal punto di vista di chi prendeva parte ai riti stessi. (Si vedano a tale proposito gli studi di Carlo Ginzburg, I Benandanti e Storia notturna.)

Streghe e stregoni finirono con il conformarsi e con l’identificarsi con i modelli predominanti nella coscienza collettiva, con l’essere plagiati dalla cultura cattolica egemone, e finirono con l’essere bruciati condividendo paradossalmente con i loro carnefici una stessa visione del mondo, di cui incarnavano «il lato ombra». Un immaginario mitico che aveva resistito per più di un millennio nella cultura popolare contadina  europea, alla fine del paganesimo, si estinse così in meno di due secoli.

È una legge generale: ciò che la coscienza collettiva ritiene vero acquisisce la «potenza del fare» e viceversa per ciò che è ritenuto falso. La realtà è (anche) un sogno collettivo. Così le «streghe», dedite a pratiche il cui senso profondo si era ormai irrimediabilmente perduto, espressione di culture marginali e in via di estinzione, erano esposte in modo particolare per la loro «diversità» al rischio di incarnare i lati più oscuri dell’immaginario giudaico-cristiano. (Inutile dire che queste caratteristiche si sono amplificate enormemente nelle moderne organizzazioni pseudo-iniziatiche che si rifanno alla stregoneria, tipo Wicca e simili.)

Se col passare dei secoli un archetipo finisce con lo sprofondare nel buio delle coscienze (come ad esempio è avvenuto con le energie femminili legate alla Grande Madre e per quelle maschili di tipo dionisiaco), esso finirà con l’acquistare tratti e caratteristiche infere e negative, anche per chi ne vive la numinosità. Ciò che nei primi millequattrocento anni dopo Cristo è avvenuto «in piccolo» per Artemide, Dioniso, Pan, Ecate, Demetra e Persefone, Cibele, Mitra, Osiride, si è verificato «in grande» negli ultimi cinquecento anni ad opera della scienza. L’intero rapporto dell’uomo col mondo «sottile» e col sacro (dei, ninfe gnomi, satiri, folletti, fantasmi, angeli, demoni, spiriti, fenomeni legati al manifestarsi del sacro, capacità paranormali, magia, riti canonici delle grandi religioni, iniziazioni a Organizzazioni Tradizionali), si è andato modificando lentamente. Infatti la scienza nega la realtà dei fenomeni suddetti per il semplice motivo che non può occuparsene: non sono né misurabili, né riproducibili, né falsificabili.

Per avere un’idea di come la scienza si avvicina a queste cose basterebbe consultare Orizzonti scientifici della parapsicologia (Boringhieri) o le discussioni tra Popper e Adorno. È incerto se anche la psicologia o la sociologia possano mai aspirare al ruolo di scienze.  L’uomo comune ritiene ormai che «spiegare» qualcosa (un fenomeno fisico, psichico o altro), nel senso di intenderne in profondità le cause ultime, significhi «ridurre» la cosa a una catena di sottofenomeni presentabili come modello afferente a una delle tipologie accettate dalla comunità scientifica. Così si sente dire: «Hanno scoperto che la nevrosi, la felicità o l’innamoramento o la sofferenza o la schizofrenia dipendono da un particolare enzima» o che «viene liberata quella o quell’altra sostanza chimica» o che «in realtà si tratta di fenomeni elettromagnetici». Questa arbitraria nozione di causa maschera in realtà la traduzione delle varie classi di fenomeni in linguaggi creati per intervenire su di essi e assoggettarli alla volontà di potenza umana, privilegiando gli aspetti meccanici, riproducibili e controllabili dell’accadere. Questi ultimi finiscono poi con il diventare, nella coscienza collettiva, «la vera realtà», mentre alla sfera del sacro e del «sottile» è destinato il trattamento che abbiamo visto in precedenza, il destino di quegli dei pagani che incarnavano archetipi rimossi dal sentire comune.

Le forme di culto e di venerazione del sacro, le forme sopravvissute di «pensiero magico», (la stessa estetica cristiana del sacro), si sono imbarbarite e involgarite perché subalterne alla scienza (la Verità sulla Sindone e sul sangue di San Gennaro, l’esatta localizzazione del Monte Ararat, le statistiche sull’astrologia, la chiesa scientologica dei Dianetici, i paragoni tra taoismo e fisica atomica, ecc.). Gli «operatori del sacro» si preoccupano di dimostrare ad un immaginario interlocutore a carattere illuminista (l’alter ego interiorizzato della cultura egemone) che i «mondi sottili» esistono veramente e si sforzano di produrre, come scolaretti un po’ ritardati di fronte al loro maestro, prove e fenomeni che finalmente «convincano» in modo definitivo i positivisti, inducendoli a non ritenere folle o visionario chiunque creda nell’invisibile. Un atteggiamento analogo viene assunto dal povero Canterville Ghost di Oscar Wilde di fronte agli scettici borghesi americani venuti ad abitare il suo castello avito e, per i più giovani, dalla strega Nocciola con Pippo, che si rifiuta di credere nei poteri soprannaturali della vecchia.

Possiamo tracciare una analogia tra la trasformazione di Dioniso e Diana nel demonio e delle streghe in sue adoratrici e la moderna trasformazione di coloro che credono nel sacro e nelle cose invisibili in patetici visionari senza alcuna credibilità (destinati agli strali dei Piero Angela di turno), in ingannatori di masse e manipolatori di coscienze, in truffatori e imbonitori che si servono di trucchi da quattro soldi per turlupinare le proprie vittime, in incolti  superstiziosi e creduli, seguaci delle peggiori produzioni sottoculturali, in profittatori senza scrupoli, che sfruttano le debolezze altrui per motivi di lucro. Questi, infatti sono i motivi per i quali, secondo la coscienza collettiva «scientista» una persona dovrebbe credere nel sacro o percepire realtà «sottili». Esattamente come accadde ai partecipanti ai sabba nei secoli dell’Inquisizione, i moderni cultori del magico o del sacro spesso assumono davvero tali caratteristiche negative.

Pochi, forse, si rendono conto che produrre una «dimostrazione inconfutabile» della veridicità di un fenomeno sottile o paranormale, lungi dal far accedere i fruitori della «dimostrazione» al mondo sottile, fa invece sprofondare l’autore della «prova» nel mondo prosaico della materializzazione e della pesantezza dell’essere, nel mondo, cioè, dei suoi interlocutori positivisti che riportano, da convinti, una vittoria assai più schiacciante di quella che otterrebbero restando scettici.

Questo era uno dei sensi del tacere, della discrezione degli antichi sui Misteri: la qualità della motivazione a volerli divulgare. Perché tutto questo discorso? Solo per dire: prima di giustificare la Tradizione con la scienza, riflettete e guardatevi intorno!

 

Note:

(1) "L'autore ha svliluppato alcune delle idee esposte in questo articolo nel suo saggio "Dioniso nei frammenti dello specchio", Irradiazioni, Roma 2003


 

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