Platone, Aristotele: un confronto

Di Nadia Campisi

 

I felici sono felici per il possesso della giustizia e della temperanza e gli infelici, infelici per il possesso della cattiveria.
(Platone)

La felicità include anche la soddisfazione dei bisogni e delle aspirazioni mondane. I felici devono possedere tutti e tre i tipi di beni: esterni, del corpo e quelli dell'anima.
(Aristotele)

 

Contesto storico formazione culturale

 

Platone vive tra il V ed il IV secolo a.C. , Aristotele nel IV a.C. e per circa venti anni frequenta come allievo l’Accademia platonica.

Prima di considerare lo sfondo culturale dell’Accademia e di ponderarne l’influsso esercitato sul giovane Aristotele, delineiamo brevemente i tratti generali della formazione dei due filosofi, singolarmente considerati.

Platone è scolaro di Cratilo, importante continuatore della filosofia di Eraclito.

Giunto ad età di ragione, in cui farsi padrone di scelte e responsabilità riguardanti il proprio destino, si dirige verso l’orizzonte politico.

La frequentazione di Socrate come amico ed allievo lascia indelebile impronta nella sua sensibilità filosofica, che lo muove verso un approfondimento delle posizioni socratiche, il quale tuttavia assume ben presto caratteri originali.

A determinare irreversibilmente l’orientamento politico del filosofare platonico è il misfatto della condanna a morte di Socrate, evento simbolico eclatante della crisi politica e sociale della Grecia del tempo, uscita sconfitta dalla guerra del Peloponneso (404 a.C.) e dilaniata dal successivo instaurarsi del regime dei “Trenta tiranni”, tra i quali figurano anche alcuni parenti di Platone.

Egli non verrà mai a far parte della classe politica dirigente, ma per tutta la vita sosterrà la necessità che al potere vi siano uomini saggi ed assennati: filosofi; ecco dunque, la finalità politica di tutto l’itinerario platonico.

Altre influenze essenziali nel suo pensiero gli giungono dalle esperienze dei viaggi: Megara, dove incontra Euclide, Egitto e Cirene. Ancora, in Italia Meridionale (Siracusa) dove viene a contatto con i Pitagorici.

Notevole è l’impronta delle dottrine orfiche e pitagoriche nel pensiero platonico, specie per quanto riguarda il rapporto anima-corpo, questo ultimo inteso come prigione (addirittura, è usato il termine “séma”, che tra i suoi significati ha quello di “tomba”) dell’anima.

 

Sebbene temporalmente non molto distante da Platone, Aristotele vive in un contesto sociale e politico sensibilmente differente: la crisi delle città-stato greche ad opera del regime dei Trenta Tiranni appare ormai irreversibile;  la partecipazione alla vita politica, come la speranza di poter apportare ad essa dei cambiamenti in favore di una nuova direzione viene di conseguenza vista come poco plausibile, diventando perciò oggetto di sfiducia e disinteresse.

Questo comporta una trasformazione delle finalità e degli indirizzi del pensiero: da ora, ci si concentrerà  preferibilmente nel campo della speculazione conoscitiva e, specialmente, etica.

Una impronta decisiva nella formazione della sua personalità filosofica possiamo ravvisarla nella lunga tradizione medica che questi ha alle sue spalle: non soltanto il padre è medico, ma sembra che una più antica tradizione legasse tutta la famiglia alla pratica della medicina.

Importante è stato l’influsso di questa tradizione sulle scelte metodologiche da lui adottate: l’interesse per la biologia e per l’individuo studiato secondo un procedere finalmente scientifico, quell’ ” empirismo” metodologico che si pone in aperto contrasto con l’idealismo platonico, sono esempi che ce ne forniscono già una prima idea.

Inoltre, l’anno di entrata nell’Accademia (367 a. C.), sarà quello a partire dal quale Platone se ne assenta per ben tre anni, in occasione del suo secondo viaggio in Sicilia, e durante il quale la reggenza della scuola è tenuta da Eudosso, nel cui particolare spirito scientifico (questi era infatti scienziato di vasta formazione e competenza) avviene il principio dell’iter che gli allievi dell’Accademia percorrono.

Platone lo descrive nella Repubblica, noi qui ne diamo un breve accenno, al fine di conoscere l’educazione ricevuta da Aristotele: prima di ogni altra cosa avevano luogo gli studi di Musica e la pratica della Ginnastica, poi gli studi propedeutici alla Filosofia, ossia: la Matematica (scienza del calcolo), la Geometria (scienza degli enti immutabili), l’Astronomia (scienza del movimento ordinato e perfetto).

Fra i 30 ed i 35 anni soltanto si principiava con lo studio della Filosofia o Dialettica (s’intende la scienza delle idee), dopo aver completato con successo il tirocinio precedentemente descritto.

 

Possiamo ora facilmente constatare la diversa sfumatura della loro formazione.

In Aristotele c’è confluenza di elementi e metodo di carattere “scientifico”, aventi ossia una portata razionale, metodica, strutturata.

Da ciò seguirà il carattere sistematico e cosiddetto “chiuso” del suo pensiero: la forma della sua opera è il trattato, in cui una sola voce ha il diritto di parola, ed eventuali altre sono riportare solo in funzione del sostegno della tesi di quella unica voce.

 

Platone possiede un’ascendente d’ispirazione profondamente diversa.

I contatti con Eraclito l’oscuro, le dottrine dei pitagorici sui numeri e sull’anima, ed il filosofare socratico  conferisco alla sua indagine maggiore dinamismo, ed un’ apertura quasi religiosa.

Ciò è ben chiarito da due elementi.

Il primo è l’utilizzo del mito per la comunicazione delle più alte realtà dell’essere, che non possono essere colte nel loro dinamismo dalla ragione, si tratta di quelle  realtà che costringono l’uomo ad un scelta, alla ricerca d’un'altra via per procedere nella conoscenza.

Il secondo elemento è costituito dagli stessi testi platonici: essi sono tutti in forma di dialogo, in cui le verità raggiunte sono il risultato della partecipazione di più e diverse voci, di una messa in discussione di talune opinioni al fine di poter avvicinarsi sempre più alla verità.

Aristotele si trova in totale disaccordo con queste scelte di stile del maestro: sostiene infatti che ogni scienza debba elaborare un suo peculiare linguaggio, poiché non si tratta soltanto di vedere la verità, ma anche di poterla spiegare, e ciò deve essere fatto metodicamente e non in maniera confusa e con linguaggio balbettante, quale quello dei miti, che illustrano il “che cosa” ma non il “perché”.

Platone si ferma a contemplare il limite oltre il quale la ragione deve fermarsi e cedere il passo ad altre facoltà, e qui inserisce il mito, che facendo appunto leva su facoltà altre permette all’uomo una certa visione della verità, un mezzo per una partecipazione a quel dinamismo che essi celano, ed in qualche modo avvicinano all’uomo.

 

Aristotele, forte del suo metodo d’indagine positivo – razionale, in una prospettiva privilegiante un decisivo ottimismo della ragione vuole fornire un quadro immediatamente completo: pertanto definisce e sistematizza, in una forma che permetta a chiunque l’accosti di visualizzare per mezzo della razionalità la struttura intera della realtà.

 

Antecedenti filosofici

 

Abbiamo visto brevemente come la formazione e la situazione storico-politica caratterizzante i due filosofi abbia influito specie sulla metodologia di cui si sono serviti per avvicinare ed affrontare i problemi dell’esistenza.

Ora scendiamo un po’ più in profondità, spostandoci dall’esame della loro personalità e del conseguente approccio alla filosofia, all’oggetto della loro speculazione.

Fondamentalmente, Platone ed Aristotele si pongono il medesimo problema dei filosofi presocratici, ossia quale sia l’origine di tutte le cose , e di Socrate, che si chiedeva “che cosa” sia l’uomo, salvo affrontarlo in maniera più complessa ed esaustiva.

Assumono dunque i due principali problemi della filosofia che li precede, ed il merito di entrambi, nonché la profonda innovazione che si ha col loro pensiero, è quello di averli intimamente ed armoniosamente connessi tra di loro.

Non è concepibile nella loro costruzione separare il problema dell’essenza da quello antropologico.

Vi sono alcune categorie del pensiero loro anteriore di cui i nostri si servono; qui ci concentriamo su quello principale: si tratta del principio di identità e non contraddizione formulato da Parmenide che servirà loro per parlare dell’Essere Vero, della realtà originaria.

 

Qual è l’origine di tutte le cose?

Idealismo platonico ed immanentismo aristotelico

 

Abbiamo enunciato nella nota ottava il principio di identità e non contraddizione e  le sue conseguenze.

Platone muove verso la ricerca di una realtà sostanziale ad autonoma, che possa essere causa di tutta la varietà della nostra esperienza.

Questa realtà deve possedere le caratteristiche deducibili dal principio precedentemente enunciato: deve essere realtà stabile ed immutabile, solo così potrà essere oggetto di scienza, cioè di  conoscenza valida. Le realtà che presentano questa caratteristiche secondo Platone, sono degli enti che lui denomina Idee.

Questo termine potrebbe trarci in inganno, lasciandoci ritenere che si tratti di contenuti mentali:

le Idee, invece, non esistono in una mente, od in altro qualsiasi contenitore, esistono “in sé” e “per sé”, entità perfettamente autonome e trascendenti rispetto alle cose.

In realtà, sarebbe più appropriato denominarle “forme”o modelli, coincidenti con concetti universali, rilevabili dall’Intelletto, che si pongono al di fuori della temporalità e della contingenza, in una realtà trascendente. 

Ad esempio si consideri l’idea di grandezza: benché gli oggetti dei quali consideriamo questa proprietà non siano affatto permanenti, l’idea resta sempre valida, e constatabile attraverso sempre nuovi oggetti.  

Esiste una idea per ogni concetto di questo genere.

Ne segue che deve esserci un rapporto tra queste realtà immutabili e gli oggetti percepiti dalla nostra sensibilità, entrambe le realtà sono percepibili dalle diverse facoltà conoscitive dell’uomo, e ciò che stiamo ricercando è l’origine di tutte le cose che percepiamo.

Quest’origine, è ritrovabile presso le Idee. Esse sono secondo Platone causa delle cose, poiché queste ultime e tutti gli esseri individuali sono (ossia possiedono un certo grado di realtà) in quanto imitano o partecipano delle Idee. Per ogni cosa può esserci un differente grado di partecipazione ad una data idea (che corrisponde al grado di realtà della cosa stessa), e la concorrenza di più e diverse idee determina le caratteristiche delle singole cose .

Sorge ancora una domanda: com’è possibile questa partecipazione degli enti sensibili alle idee? 

Serve una potenza, od intelligenza che la renda possibile.

Si tratta della figura del demiurgo, potenza plasmatrice che agisce sulla materia informe facendo sì che  essa si determini in relazione alla partecipazione con le idee.

 

Il processo attraverso il quale Aristotele si discosta dal pensiero del maestro passa proprio attraverso la critica a questa concezione della realtà.

Aristotele sostiene che queste Idee sono tanto al di fuori del mondo sensibile da non poter essere oggetto della nostra conoscenza, ma neppure causa della nostra coscienza di esse ed, in ultima analisi, essendo così distanti ed esterne dagli enti materiali, non possono essere causa di questi.

Aristotele parte da quello che è l’oggetto della conoscenza più immediata: l’oggetto concreto ed individuale che veniamo a trovarci davanti, quella è per questi la realtà primaria, ed all’interno di questa realtà bisogno trovare la causa delle cose, non fuori.

Secondo Aristotele, il maggiore imbarazzo riguardo all’idealismo si avrebbe quando si viene a determinare quale contributo le idee arrechino all’esistenza delle cose: esse si presentano come inutili doppioni, essendo logicamente ed ontologicamente assurdo pensare la natura delle cose al di fuori di esse.

Si noti che Aristotele non nega la esistenza dei concetti universali, né ritiene che siano mera creazione umana: soltanto essi vanno cercati internamente alle cose, ed esistono in quanto caratteristiche degli oggetti singoli.

La prospettiva è antitetica rispetto a quella platonica: Aristotele pone priorità d’attenzione al mondo visibile dell’ “hinc et nunc”: deve render conto delle cose concrete, e da esse vuole partire.

Questo non vuol dire che egli non ritenga che l’oggetto della vera conoscenza debba essere stabile e permanente; allo scopo di fornire una spiegazione valida degli oggetti concreti della esperienza sensibile, anche Aristotele introdurrà dunque dei concetti universali: quelli di sostanza, forma e materia, atto e potenza.

Con sostanza lui intende una qualsiasi cosa esistente, ogni concreta cosa considerata nella sua individualità; tutte le cose hanno in comune proprio questo fatto: di essere qualcosa.

Aristotele arriva a questo concetto per astrazione mentale, a partire dalla considerazione di un oggetto concreto comprensivo anche delle sue diverse qualità.

A rendere sostanziali queste realtà individuali è in modo specifico, come abbiamo detto, il fatto che esse siano qualcosa, che siano enti.

Dobbiamo ora stabilire come si spiega la differenza dei vari enti ed il loro mutamento.

Aristotele introduce qui i concetti di forma e materia e di potenza ed atto, la prima coppia per spiegare le differenze tra gli oggetti e la seconda per spiegare il divenire, il mutamento degli stessi.

Ogni “cosa”, ossia ogni sostanza, è in realtà vista come una unione di due componenti in intimo rapporto tra loro: egli le chiama  forma e materia, intendo con la prima un principio attivo che conferisce un particolare modo di essere ad una realtà passiva ed inerte (la materia) .

Dunque ogni ente è ciò che è in virtù della sua forma, che imprime dei caratteri specifici alla materia inerte.

Il mutamento, invece, presuppone il concetto di “potenza”, cioè di una tendenza costitutiva ad assumere una precisa forma. L’atto si ha invece quando questa forma è stata assunta, e la materia è stata plasmata. Se tutto fosse già atto, il movimento non si avrebbe.

Aristotele, tuttavia, pone un altro problema:  il “cambiare di stato” di un ente, implica che vi sia un sostrato che faccia, per così dire, da ponte a ciò che l’ente è nella sua situazione di partenza a ciò che diviene tramite il suo divenire.

Cosa ci garantisce, infatti, che nel passare dal primo al secondo stato l’ente non si annulli?

Garante di ciò è la materia prima ed inerte: essa permane come sostrato ad ogni divenire degli enti sensibili.

Anche per Aristotele esistono, in un certo senso, diversi gradi di realtà, che consistono però in una gerarchia di sostanze: le sostanze sensibili periture, quelle sì sensibili, ma al contempo non corruttibili ( cieli, pianeti,  stelle, costituiti di “etere”) ed ancora, alla sommità, le sostanze immateriali, eterne e trascendenti, tra cui il “motore immobile”, il Dio aristotelico che è l’unico a muovere ed a non esser mosso.

 

Com’è possibile la conoscenza?

 

Dopo aver visto come i nostri interpretano l’esistenza della realtà che ci circonda, dobbiamo illustrare in che cosa consista la conoscenza.

La risposta di Platone circa l’essenza della conoscenza, parte dalla considerazione che “ ciò che assolutamente è, è assolutamente conoscibile, e ciò che in nessun modo è, è in nessun modo conoscibile”. C’è una corrispondenza con quanto affermato in precedenza trattando della concezione della realtà: in sostanza, ai due gradi di realtà, mondo sensibile e mondo ideale, Platone fa corrispondere due facoltà umane atte coglierli: i Sensi, e l’Intelletto.

Il sapere è considerato quasi come fotografia del soggetto, un coglierlo nel suo intimo essere.

Ne consegue che, la conoscenza sensibile, producente congetture e credenze è inabile a cogliere l’oggetto nella identità della sua essenza. E’ invece la conoscenza razionale, che si esplica nella ragione matematica e nella intelligenza filosofica ad adempiere perfettamente a questo scopo: essa ha per oggetto, infatti, le Idee, sia quelle matematiche, che le Idee-valori. 

La via di accesso all’intelligibile è rinvenuta da Platone nella “anamnesi” o “reminescenza”: conoscere è quindi ricordare, ossia riconoscere nelle cose le forme che già abbiamo visto, conosciuto e che sono pertanto presenti nella nostra anima. Ecco, di nuovo, la presenza delle dottrine orfico – pitagoriche, della reincarnazione delle anime.

Platone dimostra la sua teoria per mezzo di un esperimento: pone uno schiavo, completamente ignorante di geometria, dinanzi ad un problema e mostra come questi riesca a risolverlo senza conoscenza diretta dei teoremi necessari, riuscendo a ricavare da sé i passi necessari alla risoluzione.

Altra dimostrazione è fornita dalla esistenza in noi delle nozioni matematiche come idee perfette non riscontrabili nello stesso grado di perfezione nella realtà sensibile.

L’anima è pertanto immortale (non muore con la morte del corpo) e le idee innate in essa, ecco per quale ragione l’atto del conoscere si identifica in quello del ricordare.

Non dobbiamo ciononostante dimenticare, come abbiamo precedentemente anticipato, che esistono diversi gradi della conoscenza. Sebbene la conoscenza che ha per oggetto il mondo sovra - sensibile sia la più autentica, permangono nelle possibilità dell’uomo altri gradi della stessa.

Il mondo sensibile, come abbiamo già accennato, conduce alla opinione, che è un misto di conoscenza ed ignoranza. L’opinione non è dunque totalmente la verità; essa si divide in immaginazione e credenza.

La conoscenza delle Idee – Valori, che compete più strettamente alla filosofia è possibile attraverso la dialettica, che è un procedimento attraverso il quale l’Intelletto scorre tra le idee, determinando il rapporto che vi è tra di esse, creando una sorta di “mappatura” del reale.

Questo scorrere dell’Intelletto può avvenire in due direzioni: dalla molteplicità degli enti sensibili all’idea del Bene, e viceversa.

L’Idea del Bene, in Platone, è anche principio di intelligibilità della realtà: non possiamo prescindere da tale Idea per comprendere e spiegare le realtà sia del mondo sensibile, che di quello intelligibile. In realtà, l’Idea del Bene è così al di là dell’essere da sfuggire alla definizione: l’uomo può coglierla soltanto per mezzo di similitudini e metafore.

 

Per comprendere ora come la teoria della conoscenza di Aristotele si distacchi da quella platonica, abbiamo bisogno di approfondire la diversa concezione dell’anima.

Per entrambi l’anima è il soggetto della conoscenza, ma differenti sono le modalità attraverso le quali essa conosce.

 

Secondo Aristotele la conoscenza si ha, a partire da, e nel rapporto tra soggetto conoscente (che è possibilità – potenza di conoscere) ed oggetto (potenza ad essere conosciuto); non ci sono nozioni note all’anima prima di questa relazione, come avviene invece nella concezione platonica.

La memoria ha la funzione di rievocare il ricordo a partire da un rapporto conoscitivo concreto già avutosi, ciò porta ad una concezione dell’anima come tabula rasa, un foglio bianco senza nessuna traccia anteriore alle azioni conoscitive stesse.

In Aristotele vi è anche la possibilità di conoscenza dei concetti universali, ad opera dell’Intelletto. Quest’ultimo, a partire da oggetti concreti dati, riesce attraverso un processo di astrazione a cogliere la forma, l’essenza intelligibile delle cose.

Tuttavia, l’intelligibile è contenuto dal dato sensibile solo a livello potenziale, e perché vi sia una conoscenza attuale, diretta, l’anima individuale deve mettersi in comunicazione con quello che viene chiamato “Intelletto Attivo od Attuale”, dove i concetti universali esistono in atto.

L’Intelletto individuale è considerato morente insieme al singolo, quello attuale, invece, imperituro.

 

Il Bene e la Felicità

 

La complessità della riflessione sul Bene da parte dei nostri due risiede nel fatto che essa investe molteplici ambiti: riguarda la essenza e la struttura della realtà, coinvolgendo al contempo la sfera dell’uomo e della sua etica.

Nella Repubblica, Platone ci dice che l’intera realtà è finalizzata al Bene, mentre nel dialogo “Filebo” si chiede cosa sia il Bene per l’uomo: le due indagini camminano parallele nell’indagine platonica.

La risposta platonica circa la vita buona per l’uomo, risiede in quella che lui chiama ”la vita mista”, di piacere ed intelligenza.

Egli esamina infatti due possibili forme di vita: una edonistica, devota alla ricerca nella propria vita del piacere, ed un’altra consacrata invece all’esercizio del pensiero e della intelligenza.

Il Bene, consiste in una di queste forme di vita? In realtà, nella sua ricerca dobbiamo tener conto di una sua caratteristica intrinseca: esso è  qualcosa di compiuto, completo.

Si pensi, inoltre, allo stretto legame corrente tra piacere ed intelligenza: senza questa ultima, non avremmo modo di discernere i piaceri dai non piaceri.

Ecco allora che le due forme di vita, separatamente considerate, non conducono ad una espressione totalizzante delle facoltà umane, non rendono uomo l’uomo.

 

La visione descritta, resta, nonostante la sua soluzione pratica, immagine profondamente dualistica della natura umana.

Inoltre, la via dell’intelligenza vanta un certo privilegio nella determinazione del Bene: senza l’intelligenza essa non potrebbe comunque determinarsi.

Secondo Platone il Bene è ciò che perseguiamo ed il fine stesso di ogni nostra azione.

 

Aristotele parte da questa concezione del Bene, ma se ne discosta.

Il suo intereresse di carattere maggiormente pratico vuole infatti mettere in risalto i rapporti tra il Bene Supremo e quello dell’uomo: in tal direzione si muove la critica alla concezione platonica del Bene.

 

Questi definisce il Bene “ciò cui tutto tende”, ogni cosa mira innanzitutto ad un bene: nella indagine aristotelica Bene e Fine coincidono, ed inoltre notiamo la presenza di una pluralità di beni e di fini.

Certo è possibile definire una gerarchia in questa pluralità di fini: infatti, alcuni di questi sono in rapporto di subordinazione, altri in rapporto dominante. Tuttavia, non si può procedere all’infinito: vi deve essere anche un fine ultimo, appunto “ciò cui tutto tende”.

Questo coincide con il Bene Supremo.

Qual è il bene Supremo per l’uomo?

Secondo Aristotele è “la sua felicità”: tutto il nostro agire, la nostra vita intera tende ad essa.

Ma, allora, si pone la domanda: in che cosa consiste la felicità per l’uomo?

Nell’accumulo di piacere, ricchezze ed onori? Certamente anche ciò procura felicità, Aristotele non lo nega, ma vuole cercare una felicità che sia specifica della natura umana, una “felicità ultima” e non uno dei tanti piaceri.

La suprema felicità dell’uomo si rinviene nella sua attività caratteristica, quella che tale lo rende: se l’uomo è la sua anima, ed in specie la parte razionale della sua anima (così vuole il nostro), ciò che è suo proprio è quella “attività della parte razionale dell’anima”.

L’anima umana, secondo Aristotele è anche passione e desiderio: ma queste componenti possono lasciarsi guidare dalla parte razionale, ed avendo ruolo subordinato, non sono caratterizzanti della natura umana.

In conclusione, due considerazioni: il Bene è il fine dell’uomo, e consiste nel fatto che questi deve realizzare (non creare, né determinare; ma un tradurre da potenza in atto) se stesso secondo la  natura che gli è propria.

Ancora ne viene qui sottolineato il carattere pratico: esso si può realizzare completamente nella vita dell’uomo, per mezzo di un agire secondo virtù.

Aristotele critica Platone sostenendo che, se il Bene fosse un assoluto, cioè una unica realtà di natura universale, sarebbe umanamente impossibile attuarlo oltreché questione di scarso interesse:  più che la conoscenza di un concetto universale, l’uomo vuole conoscere il Bene pratico, e le sue concrete possibilità di realizzazione.

 

Aristotele: Felicità e virtù

 

Aristotele esamina con molta profondità il rapporto tra virtù e felicità, specie in quale misura l’esercizio della una sia cagione dell’altra .

Ebbene, la virtù è condizione sì necessaria, ma non sufficiente per il darsi della felicità: neppure la pratica sommamente perfezionata di tutte le “azioni buone” renderebbe lieto colui che soffra gravi dolori nel corpo e che si trovi in condizioni di forti privazioni esterne. La felicità, in questa concezione, sembra affine alla “vita mista”  platonica: i beni del corpo, dell’anima e l’esercizio della virtù debbono essere compresenti, sebbene a questo ultimo spetti un primato imprescindibile.

 

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