La Mauerische Trauermusik di Mozart fra simbologia massonica e tensioni romantiche

di Alessandro Nardin

 

Se è vero che la dedizione di Mozart nei confronti della massoneria era stata tutt’altro che marginale, anzi, sostenuta con convinzione, è purtroppo altrettanto vero che la produzione musicale creata per la Fratellanza non possa definirsi artisticamente all’altezza della passione riversata dal musicista nella partecipazione ai lavori muratori.

Fra le diverse pagine realizzate, tuttavia, è possibile individuarne una che a buon diritto può ritagliarsi un posto fra i capolavori mozartiani: la Mauerische Trauermusik K 477, sublime creazione che Mozart inserì nel proprio catalogo nel mese di luglio del 1785, “per la morte dei fratelli Mecklenburg ed Estherazy”, sebbene non vi sia assoluta certezza su modi e finalità della composizione[1].

In 69 battute il “fratello” Mozart condensa una delle più profonde riflessioni sulla morte che la storia della musica abbia consegnato all’umanità, senza attendere la Messa da Requiem, senza confrontarsi con un testo liturgico, sublimando il passaggio dalla vita alla morte, nonché un alchemico ritorno dalla morte in vita, in una precoce idea di “musica assoluta”, per dirla con Dalhaus, in cui lacerazioni tragiche e rasserenamenti improvvisi, spiritualità e fervore mistico convivono in un raro esempio di pre-romanticismo musicale, sospeso fra arte e misticismo.

Una pagina che incanta al primo ascolto, enigmatica ed inquietante fin dal primo apparire dei suoni, una prometeica creazione dal nulla, un sinistro bagliore nelle tenebre, la terza minore degli oboi che scivola sulla sensibile, marcato nel suo divenire da una premonitrice doppia forcella in crescendo-diminuendo.

Il colore solenne dei fiati, il perenne trasmutare dei suoni, la rinuncia alla tirannia del melodismo galante o del patetismo affettivo: in questo perpetuum creativo si riconosce la precisa volontà del superamento i limiti; ed è proprio questa semplice affermazione che è in grado di esprimere l’impressione di un intero ascolto, e quindi di guidare l’ascoltatore, come un iniziato, attraverso i sentieri nascosti che le note tracciano di volta in volta.

 

Un superamento, un’appropriazione di spazi indebiti, è la stessa scelta di celebrare la morte al di fuori di una liturgia religiosa, sfuggendo al rigido vincolo dettato dai testi sacri canonici (il Requiem cattolico, i corali protestanti); l’occupazione laica di una dimensione religiosa attraverso una liturgia di Stato è una invenzione della Rivoluzione Francese, la quale ha sostituito alla celebrazione in chiesa la grande celebrazione en plein air accompagnata dalle bande civiche e decorata dagli aerei suoni delle marce funebri, prima inesistenti.

Non certo una marcia, non una processione bandistica di massa, la Musica Funebre Massonica è quindi un’indagine strumentale priva di riferimenti testuali (se non indiretti, come vedremo), così come di autorità confessionali, terreno di ricerca musicale ed interiore per il compositore, il quale comincia la sua opera di ri-creazione plasmando a proprio piacimento le rigide ripetizioni del principio formale scelto, quella semplice forma tripartita o ternaria, nella quale una sezione iniziale (A) si ripete pressoché identica al termine di una sezione centrale (B) costituita da materiale musicale diverso.

L’apertura è affidata ai fiati, strumenti massonici per eccellenza, la cui importanza simbolica non viene tradotta in musica soltanto tramite il cospicuo numero impiegato (due oboi, due corni, un clarinetto e un corno di bassetto nella prima versione musicata, con l’aggiunta di altri due corni di bassetto e di un gran fagotto nella seconda), ma al fatto che mai nella composizione questi vengano usati, come prassi “profana” dell’epoca richiedeva, in raddoppio agli archi dell’orchestra: le parti sono sempre autonome e molto spesso da protagoniste.

La sezione prosegue con un tormentato dialogo fra fiati ed archi, nel quale a questi ultimi è affidato di connotare semanticamente la tragicità del mistero, gli spasimi del dolore, attraverso un tortuoso percorso melodico ed improvvise entrate in forte con dissonanze accentuate.

E’ la sezione B che rischiara queste tenebre, modulando nella tonalità relativa maggiore (da do minore a mi bemolle maggiore, entrambe tonalità “massoniche”, con tre bemolli in chiave, sulle quali, non per niente, Mozart impronterà Il Flauto Magico); in questa sezione ai fiati viene affidato il tema di una melodia gregoriana, la Incipit lamentatio Iaeremiae prophetae, mentre gli archi li accompagnano con un contrappunto estremamente mobile, secondo gli stilemi del corale figurato della tradizione protestante. Mozart, tuttavia, lascia concludere la sezione dal ritorno affannoso degli archi, che ripropongono le stesse formule melodiche che avevano reso così doloroso il carattere della prima sezione: è una presenza invasiva, che accoglie in sé e quasi sopprime, nascondendola nella propria pienezza dinamica, la naturale conclusione del cantus firmus dei fiati.

Prima della ripresa effettiva, Mozart colloca alcune battute di collegamento, quindi decide di nascondere all’orecchio distratto il ritorno della sezione A (l’ingresso degli oboi di cui avevamo scritto in apertura) inserendovi simultaneamente un disegno cromatico ed ambiguo degli archi, che sembra prodursi direttamente dalla sezione precedente, come la propaggine ultima di quel moto tormentato ed instabile che attraversa tutta la composizione.

 

La sezione centrale si mostra dunque come l’unico momento di chiarezza formale in una composizione strutturalmente più libera: il genere del “corale figurato” (forma musicale protestante in cui una melodia si presta ad un accompagnamento più elaborato) è rispettato nella sua specificità musicale; la libertà che si prende Mozart è invece di tipo dottrinale, poiché, invece di un tema di corale protestante, il cantus firmus  è costituito da un motivo gregoriano (testo, quindi, cattolico).

La musica questa volta si offre come medium per superare i limiti imposti dalle divisioni dottrinali: una scelta non casuale per Mozart, poiché una sintesi delle religioni positive in un’unica forma di spiritualità, che tutte le sottenda e da tutte tragga nutrimento, è una costante del pensiero del musicista (nonché dei movimenti “illuminati” settecenteschi): basterebbe andare a rileggere alcuni dei testi poetici musicati da Mozart, uno su tutti il sublime inno alla tolleranza religiosa di Franz Heinrich Ziegenhagen Die ihr des unermeßlichen Weltalls Schöpfer, cui Mozart dette musica nella Eine Kleine Teusche Kantate K 619[2].

Ma ancor più dell’avere apposto la propria firma alla musica di un testo preesistente, appare fondante un modo di vedere e di vivere la religiosità un episodio che vede protagonista il giovane Mozart, musicista e drammaturgo, nel 1782, quindi ancor prima di entrare in massoneria, quando, per il finale di Die Entführung aus dem Serail, decide deliberatamente di omettere la conversione del sultano Selim al cristianesimo, prevista nel testo originario, nel momento in cui questi ricusa i propri propositi di satrapo. Selim, scrive il musicologo Alberto Basso, rappresenta «una sorta di prototipo del monarca tollerante, illuminato, clemente, magnanimo, umano, che rinuncia all’oggetto del proprio amore per amore della libertà e che non vuole essere vittima né del pregiudizio né del compromesso.»[3] Appare quindi non solo superfluo, ma apertamente contrastante con i convincimenti del musicista ricondurre il sultano all’ovile di un “bene” aprioristicamente inteso come coincidente con la cristianità.

Pur tuttavia nell’importanza espressiva di questo momento rasserenante e di pacificazione, anche il corale cede all’ondata di suoni che tutto travolge, all’immagine di un Mozart coinvolto in prima persona in una titanica indagine mitopoietica della vita e della morte: le ultime 10 battute del corale vengono infatti soverchiate dal ritorno prepotente degli archi, come già evidenziato; prevale la musica, il tumulto, la creazione, anzi, la ri-creazione del mondo tramite i suoni, in accordo a quel filone mistico-esoterico che vede nella parola-suono l’origine del mondo e nella musica, come mimesi a posteriori slegata dal visibile, un linguaggio privilegiato di ritorno al divino, allo spirituale oltremondano.

Un atteggiamento nei confronti della musica che avrà il suo esito naturale nelle riflessioni e nelle creazioni di teorici e musicisti romantici.

E’ un linguaggio romantico quello usato da Mozart: appare evidente dalla forzatura della forma ternaria, appare evidente dalla volontà di sfuggire ai rigori semiotici e semantici di un testo scritto; si mostra romantico perfino l’omaggio a Bach, con l’uso del un corale figurato, genere tanto usato dal compositore tedesco, della cui elaborazione da parte di Mozart l’esito più sublime sarà la Scena degli Armigeri del finale di Die Zauberflöte.

Ma è nel linguaggio musicale che più si riconosce la vena “pre-romantica” della composizione, nella volontà di superare limiti di tipo espressivo, limiti nelle dinamiche, nei contrasti, osteggiati nell’estetica musicale settecentesca dal richiamo ancora riconoscibile ad un goût, un “gusto” di un epoca che volgeva al fine. Mai in una composizione non solo di Mozart, ma di tutta la sua contemporaneità vennero profusi in partitura tante indicazione dinamiche (da piano a forte, con indicazioni di sforzato, forcelle di crescendo e diminuendo, fino ad un pianissimo conclusivo) e soprattutto tanto contrastanti fra loro; quello che colpisce maggiormente è trovare improvvise impennate di volume dopo frasi appena sussurrate, oppure dei piano precipitosi ed inattesi al termine di evidenti crescendo, attitudini che si riconosceranno come tipicamente romantiche a partire da Beethoven.

Oltre quindi i limiti di un epoca, oltre i limiti del razionalismo applicato alla musica: la musica è un tumulto emotivo, un viaggio all’interno della terra, della materia di cui si compone il creato, macrocosmo e microcosmo; la Musica Funebre Massonica è il VITRIOL, capace di traghettare la massoneria illuminista verso il misticismo romantico, facendo propria la consapevolezza panteistica alchemica.

Morte e rinascita come creazione continua, morte che non è fine ma inizio perpetuo.

«Ringrazio Dio di avermi concessa la fortuna e l’occasione di riconoscere nella morte la chiave della nostra vera beatitutine», scrive Mozart al padre il 4 aprile 1787, due anni dopo l’iniziazione[4].

E questo senso di beatitudine traspare in conclusione della sua composizione funebre, nell’accordo finale, con la terza maggiore esposta in tutta evidenza, una luce improvvisa e solo apparentemente contraddittoria.

E’ l’ultima parola di Wolfgwng Amadé Mozart, musicista e massone, che sembra ricordarci con la sua opera il sapere ermetico che la ha ispirata: Qualis artifex pereo. 

 


 

[1] G. Knepler, Wolfgang Amadé Mozart – Nuovi percorsi (Milano, 1995), p. 189

[2] L. Bramani, Mozart massone e rivoluzionario (Milano, 2005), p. 12

[3] A. Basso, L’invenzione della gioia. Musica e massoneria nell’età dei lumi (Garzanti, Milano, 1994), p. 556

[4] AA.VV., Mozartiana (Milano, 1991), p. 186

 

 

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