Nel Cielo della Luna

Speranza e Diomede

 

 

"…le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L'uno si chiama litterale, e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L'altro si chiama allegorico, e questo è quello che si nasconde sotto 'l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna… (omissis) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale, ancora sia vera eziandio nel senso letterale, per le cose significate significa de le superne cose de l'etternal gloria… (omissis). E' impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò sia cosa che ne le scritture la litterale sentenza sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l'altre, massimamente a l'allegorica, sanza prima venire a la litterale." (Convivio, II, i)

L'interpretazione "alla lettera" sembra dunque che sia il primo passo che tutti i ricercatori debbono compiere, per poter procedere nelle interpretazioni più sottili. Se non si conosce in modo esatto la Lettera (in tutti i suoi sensi, significati e valori espressi), è impossibile andare oltre, senza trovare inciampo nel procedere. Il senso letterale è exoterico ed alla portata di tutti, vi sono poi dei sensi più profondi, come anche nella tradizione Cabalistica viene espresso attraverso il mito dei "Quattro che entrarono nel PaRDeS" (Paradiso):

P = Peshat (letterale),

R = Rèmez (allegorico),

D = Deràsh (morale),

S = Sod (sacro).

Dopo aver affrontato lo studio della Commedia in epoca scolastica, condizionati dalle interpretazioni storico/politiche proposte dai vari commentari, abbiamo ripreso l’approccio al testo in modo più intuitivo, cercando le risonanze empatiche con le parole del Poeta e le indicazioni operative nascoste "sotto ‘l velame de li versi strani".

Il secondo Canto del Paradiso è ambientato nel Cielo della Luna e per noi rappresenta uno dei passaggi più significativi dell’intera Opera. Vi troviamo, infatti, un metodo per la ricerca della verità ed una possibile chiave alchemica per la trasmutazione della nostra natura volgare, attraverso l’utilizzo dello specchio e del tritume come strumenti operativi.

La ricerca della conoscenza profonda.

In relazione al metodo di ricerca, osserviamo come già dal primo verso del Canto, sia chiara l’indicazione di non cercare di imitare l’esperienza di un altro, di non porsi come seguace di qualcuno, perché ciò che a questi si s-vela, immediatamente si ri-vela agli altri, come l’onda del mare solcata dalla scia di una barca, che subito si ricopre su sé stessa (versi 1-15):

O voi che siete in piccioletta barca,

desiderosi d'ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, ché forse,

perdendo me, rimarreste smarriti.

…omissis…

metter potete ben per l'alto sale

vostro navigio, servando mio solco

dinanzi a l'acqua che ritorna equale.

Per l’iniziato è fondamentale cercare la conoscenza entro sé stesso, sperimentare tutto personalmente, essere pronto ad affrontare tutte le difficoltà del lavoro ed i rischi che le scoperte possono comportare (versi 16-18):

Que' glorïosi che passaro al Colco

non s'ammiraron come voi farete,

quando Iasón vider fatto bifolco.

Un’altra indicazione che abbiamo colto in questo Canto è relativa all’uso della ragione, che da sola non riesce a penetrare la natura delle cose, perché priva della chiave interpretativa e limitata dai sensi che ne percepiscono solo gli aspetti esteriori; come osserva Beatrice (versi 52-58):

Ella sorrise alquanto, e poi «S'elli erra

l'oppinïon», mi disse, «d'i mortali dove

chiave di senso non diserra,

certo non ti dovrien punger li strali

d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi

vedi che la ragione ha corte l'ali.

Ma dimmi quel che tu da te ne pensi».

L’ultimo verso, in particolare, ci sembra confermare l’indicazione di cercare tutte le risposte dentro sé stessi. Anche perché, come subito dopo Beatrice ribadisce, il "sentito dire" è davvero poco utile e chiunque può ben sostenere una tesi oppure la sua contraria (versi 61-63):

Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso

nel falso il creder tuo, se bene ascolti

l'argomentar ch'io li farò avverso.

La stessa Fede, contrariamente a quanto solitamente s’intende nell’accezione comune, non è accettazione passiva di qualcosa che proviene dall’esterno, bensì confidenza in ciò che si riconosce intimamente vero. Nei versi 43-45, Beatrice sottolinea questo passaggio, annunciando a Dante che di lì a poco avrebbe visto con i propri occhi ciò che aveva sempre creduto per postulato:

Lì si vedrà ciò che tenem per fede,

non dimostrato, ma fia per sé noto

a guisa del ver primo che l'uom crede.

Facendo un piccolo passo indietro, si coglie anche il senso della Speranza come la via dell’attesa, ossia dell’avvicinamento dell’Uomo con Dio, verso cui si proietta (at-tende) con il cuore. Osserviamo nei versi 29-30 un messaggio:

«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,

«che n'ha congiunti con la prima stella»

che anticipa quello che poi ritroveremo nel XXV Canto (versi 34-36):

«Leva la testa e fa che t'assicuri:

che ciò che vien qua sù del mortal mondo,

convien ch'ai nostri raggi si maturi».

e che, nello stesso Canto XXV, Dante chiarisce poco oltre (versi 67-72):

«Spene», diss' io, «è uno attender certo

de la gloria futura, il qual produce

grazia divina e precedente merto.

Da molte stelle mi vien questa luce;

ma quei la distillò nel mio cor pria

che fu sommo cantor del sommo duce.

Il ri-conoscimento di Dio nell’Uomo e dell’Uomo in Dio è un concetto di per sé già difficile da concepire. Nella Commedia, tuttavia, Dante riesce ad esprimere prima il ri-conoscimento di Virgilio in sé (Purgatorio, III, 19-24):

Io mi volsi dallato con paura

d'essere abbandonato, quand' io vidi

solo dinanzi a me la terra oscura;

e 'l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,

a dir mi cominciò tutto rivolto;

«non credi tu me teco e ch'io ti guidi? »

e poi di sé stesso in Beatrice, proprio in questo II Canto del Paradiso (versi 22-28):

Beatrice in suso, e io in lei guardava;

e forse in tanto in quanto un quadrel posa

e vola e da la noce si dischiava,

giunto mi vidi ove mirabil cosa

mi torse il viso a sé; e però quella

cui non potea mia cura essere ascosa,

volta ver’ me, sì lieta come bella,

In questi versi risplende, in tutta la sua pienezza, la facoltà di con-templazione, passaggio complementare e necessario alla com-prensione. E’ con il nobile stupore che lo accompagna in tutti i momenti di volta del suo cammino, che Dante inizia a guardare nell’interno delle cose: questa è la dote conoscitiva che necessariamente conviene alla natura dei mirabili fatti che ora cominciano a divenirgli manifesti. Ci mostra dunque come avviene la Conoscenza. Ma non solo: anche dove. È all’interno di "sé", che l’uomo vede la natura profonda delle cose. Lo stesso Dante non riesce a capacitarsene (versi 34-36):

Per entro sé l’etterna margarita

ne ricevette, com’acqua recepe

raggio di luce permanendo unita.

Non c’è frattura tra le due dimensioni che si com-prendono, che trovano comune luogo in cui essere: perché non si tratta della composizione di due differenti corpi. In questi versi la consapevolezza della propria corporeità non si manifesta dal punto di vista fisico, ma di una dimensione che lo trascende e lo comprende. Chi è Dante all’atto di contemplazione, dove si trova con la sua consapevolezza? Egli sente il proprio corpo come ricevuto in una realtà più grande, che, non è fuori di lui, ma che ha il suo centro in quello comune a tutte le dimensioni del suo essere e che, tuttavia, si estende più in là del corpo fisico e lo accoglie in sé (versi 37-42):

S'io era corpo, e qui non si concepe

com' una dimensione altra patio,

ch'esser convien se corpo in corpo repe,

accender ne dovria più il disio

di veder quella essenza in che si vede

come nostra natura e Dio s'unio.

Da questo punto di vista risultano più chiari anche i moniti della sorridente Beatrice circa la modesta altezza cui si può pervenire perseguendo la conoscenza sensibile, che non viene screditata, né deve essere abbandonata, ma piuttosto superata: da altre dimensioni conoscitive che dell’uomo sono proprie, entro le cui prospettive la stessa realtà sensibile assume un diverso aspetto.

La diversa "densità" dei corpi, di cui pure tutti gli esoteristi si interessano, distinguendone variamente gli strati dal fisico al metafisico, dal materiale allo spirituale, è un altro tema fondamentale alla base del II Canto del Paradiso. Lo troviamo nei versi 59-60:

E io: «Ciò che n'appar qua sù diverso

credo che fanno i corpi rari e densi».

e nella successiva risposta di Beatrice (versi 67-72):

Se raro e denso ciò facesser tanto,

una sola virtù sarebbe in tutti,

più e men distributa e altrettanto.

Virtù diverse esser convegnon frutti

di princìpi formali, e quei, for ch'uno,

seguiterieno a tua ragion distrutti.

Ci sforzeremo, quindi, di cercare di interpretarne le indicazioni operative di seguito descritte, per individuarne le affinità con il lavoro di trasmutazione alchemica e di reintegrazione che ci siamo proposti.

 

Gli strumenti operativi: il lavoro allo specchio e con il Trilume.

La premessa di natura teoretica possiede un ruolo fondamentale all’interno del II Canto del Paradiso: sia la natura della Luna, sia la ragione delle macchie che in essa sono riconosciute, sono colte per una immediata visione che abbraccia l’universo intero e l’uomo in tutte le sue dimensioni, individuando la legge, (una e medesima!) cui soggiacciono entrambe le realtà (versi 59-61):

Ma ditemi: che son li segni bui

di questo corpo, che là giuso in terra

fan di Cain favoleggiare altrui?».

Così come la superficie della Luna, infatti, anche il nostro "strato" materiale più superficiale, quello che definiamo "corpo lunare", presenta numerose "macchie" di cui non conosciamo la natura e la ragione (versi 73-78):

Ancor, se raro fosse di quel bruno

cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte

fora di sua materia sì digiuno

esto pianeto, o, sì come comparte

lo grasso e 'l magro un corpo, così questo

nel suo volume cangerebbe carte.

Beatrice propone a Dante un esperimento, il cui fine apparente è quello di mostrare che la presenza delle macchie oscure che vediamo sulla superficie della Luna non dipende da un aspetto quantitativo proprio della materia riflettente stessa (nella fattispecie Dante parla di "rarità", argomento proprio della dottrina averroistica che vede nelle macchie il risultato di una riflessione che avviene negli strati più interni del corpo celeste). Si tratta di un esperimento ricchissimo, che solo si può cogliere pienamente facendo di sé soggetto e oggetto sperimentale (versi 94-96):

Da questa instanza può deliberarti

esperïenza, se già mai la provi,

ch'esser suol fonte ai rivi di vostr' arti.

Proviamo dunque a cimentarci con questo esperimento (versi 97-105):

Tre specchi prenderai; e i due rimovi

da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,

tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso

ti stea un lume che i tre specchi accenda

e torni a te da tutti ripercosso.

Ben che nel quanto tanto non ti stenda

la vista più lontana, lì vedrai

come convien ch’igualmente risplenda

Non c’è altra via che attuarlo e verificarlo su di sé, al fine di realizzarne una immediata visione, e proprio quella di cui Dante è ritornato in pieno possesso. Quello che esprimeremo, dunque, altro non è che il frutto della personale sperimentazione, nei limiti in cui siamo riusciti di addentrarci in essa.

Poniamo l’attenzione a questi versi:

Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso

ti stea un lume che i tre specchi accenda

e torni a te da tutti ripercosso.

Questo lume, posto dietro di noi, deve poter proiettare la sua luce riflessa nei tre specchi, posti dinanzi a noi; essa deve allora poter passare attraverso lui, che è Luna, e riflettersi negli specchi per ritornarvi.

Ci chiederemo allora: come è possibile, con questa disposizione, che il soggetto posto nel mezzo, non sia ostacolo al passare di raggi luminosi? Se questo lume fosse semplicemente posto esternamente al soggetto e quindi "dietro la schiena", come potrebbe ritornarvi la luce? Probabilmente, quel "dietro" significa "dentro" e da lì deve originarsi questa luce.

Proviamo ora a capire la natura e la funzione di questi specchi:

Ben che nel quanto tanto non ti stenda

la vista più lontana, lì vedrai

come convien ch’igualmente risplenda.

Si tratta di tre realtà, usiamo provvisoriamente questo termine, verso le quali il lume irradia la sua luminosità, e dalle quali questa è riflessa. La luce riflessa è sempre la stessa, indipendentemente dalla distanza dalla sorgente (lo specchio più distante), a prescindere da quanta ne vediamo.

Ricordiamo anche dal Rituale di Iniziazione: "come una sola ed unica Luce emana da tre lumi diversi, così pure una sola ed unica Verità emana da sorgenti diverse ed apparentemente opposte… la Legge che presiede il cammino della Natura è indicata dalla misteriosa posizione dei tre lumi, che si totalizzano nell’emissione di un’unica ed identica Luce".

Se in noi è quella sorgente, rendendo trasparente la materia preposta a rifletterne la luce (la luna), potremo "accendere", i tre specchi. Questi ultimi anche sono dentro noi, o meglio: sono noi; sono accesi dalla Luce, motore del nostro essere, che dalla profondità si rispecchia nella volontà, nell’intelligenza e nell’azione.

Dopo aver direttamente vissuto l’esperienza dei tre specchi, Dante, è rimasto nudo: come la neve si spoglia, per effetto del calore solare, delle caratteristiche secondarie e contingenti, allo stesso modo egli rimane, privo dei falsi convincimenti che deformano la comprensione di ciò che egli stesso è, e di ciò che naturalmente deve avvenire entro lui (versi 106-111):

Or, come ai colpi de li caldi rai

de la neve riman nudo il suggetto

e dal colore e dal freddo primai,

così rimaso te ne l’intelletto

voglio informar di luce sì vivace,

che ti tremolerà nel suo aspetto.

Beatrice interpreta il ruolo dell’Iniziatore e rivela a Dante ciò che poi lui dovrà attuare da solo: ora muove lei il suo sguardo, per mostrargli per quale via è possibile attuare ciò che egli desidera, ma sarà poi lui, innalzatosi con tutto se stesso alla realtà cui ella gli permette di attingere, a dover realizzare l’Opera (versi 124-126):

Riguarda bene omai sì com’io vado

per questo loco al vero che disiri,

sì che poi sappi sol tener lo guado.

Quando incontriamo una persona che questi specchi ha accesi, le sue parole ed azioni si maturano in direzione di questa finalità intrinseca, allora riconosciamo proprio quella sapienza e saggezza che vorremmo per noi stessi: è come se quella Luce si manifesti concretamente, rendendosi quasi palpabile.

La Luna ci mostra la continua necessità della purificazione, perché costantemente possa svolgere il suo ruolo regolatore e propagatore delle influenze superiori (versi 85-90):

S'elli è che questo raro non trapassi,

esser conviene un termine da onde

lo suo contrario più passar non lassi;

e indi l'altrui raggio si rifonde

così come color torna per vetro

lo qual di retro a sé piombo nasconde.

Così, come nell’allegoria alchemica, ciascuno di noi è impegnato nel trasmutare la propria materia vile, oscura, gravosa, per lasciar trasparire quotidianamente la Luce interiore.

 

Dal particolare all’universale.

Come avevamo accennato, un principio fondamentale della tradizione iniziatica afferma che l’Uomo e l’Universo sono soggetti alle stesse Leggi. Immediatamente ci si presenta allora alla mente questa serie di corrispondenze: "lume – soggetto sperimentale – specchi" analogamente al sistema "sole – luna – terra". La visione che Dante ci propone, se l’abbiamo sin qui conosciuta prevalentemente nel dominio umano, è anche visione universale. Egli getta lo sguardo nel profondo dell’Uomo e, così, nel profondo dell’Universo, scoprendo la Verità unica che in ogni dove si manifesta (versi 112-114):

Dentro dal ciel de la divina pace

si gira un corpo ne la cui virtute

l'esser di tutto suo contento giace.

E’ l’Empireo, sede di Dio. E’ l’Ein Sof, la luce infinita, l’infinito antecedente ad ogni apparizione di distinzione, di finitezza. A partire da questo momento, Dante ci mostra in modo poeticamente sublime l’Albero della Vita. Ogni sua parola, qui, diventa simbolo: "Dentro dal ciel" ci mostra come l’emanazione dei Cieli o delle Sefiroth avvenga proprio in Dio. Questo "corpo", prima emanazione, è il Primum Mobile, o Kether, che direttamente, im-mediatamente riceve da Ein Sof tutte le virtù e potenze che distribuirà ai cieli sottostanti. Si dice che sia un "mondo tutto nascosto" e "il catalizzatore di tutti gli esseri, ma non ancora una cosa in sé stessa", questo pare intendere Dante con le parole "l'esser di tutto suo contento giace". Con questi versi continua a venirci mostrata l’emanazione delle Sefiroth (si noti la corrispondenza tra i dieci cieli e le dieci sefiroth): ogni cielo contiene potenzialmente i cieli inferiori, e che questi ricevono dai superiori la possibilità di esistenza (115-123):

Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,

quell’esser parte per diverse essenze,

da lui distratte e da lui contenute.

Li altri giron per varie differenze

le distinzion che dentro da sé hanno

dispongono a lor fine e lor semenze.

Questi organi del mondo così vanno,

come tu vedi omai, di grado in grado,

che di sù prendono e di sotto fanno.

Dunque, le virtù inizialmente concentrate nell’unità indistinta che è in Dio solo, ora si manifestano individualmente ed in modo qualitativamente differenziato, e nella loro inter-dipendenza, come organi di uno stesso organismo (versi 133-139):

E come l’alma dentro a vostra polve

per differenti membra e conformate

a diverse potenze si risolve,

così l’intelligenza sua bontate

multiplicata per le stelle piega,

girando sé sovra sua unitate.

Virtù diverse esser convegnon frutti

di princìpi formali, e quei, for ch’uno,

seguiterieno a tua ragion distrutti.

Richiamando il Pilastro centrale dell’Albero della Vita, vediamo chiaramente le ultime tre Sefiroth, in esso allineate: Tipheret, Yesod, Malkhut. Il nostro Lume (Tipheret, Sole), per portare e riflettere la sua legge e presenza nella concretezza che l’uomo può manifestare (Malkhut, i sensi ed corpi dell’uomo, la manifestazione finale, nel nostro caso il riflesso tangibile e visibile), deve passare attraverso Yesod (la Luna), ricettacolo ma anche centro attivo di tutte le nostre proiezioni.

Questi lumi accendono ogni nostra facoltà, ogni organo del nostro essere, dandoci vita come il respiro rende vivente il nostro corpo (versi 64-66):

La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.

coniugandosi e sacralizzando ciascuno in funzione della sua capacità di at-tendere verso le manifestazioni del divino e di com-prenderle in sè (versi 136-144):

Virtù diversa fa diversa lega

col prezïoso corpo ch’ella avviva,

nel qual, sì come vita in voi, si lega.

Per la natura lieta onde deriva,

la virtù mista per lo corpo luce

come letizia per pupilla viva.

Risulta allora, in conclusione, più chiaro il senso delle "macchie lunari" (versi 145-148):

Da essa vien ciò che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa è formal principio che produce, conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro.

 

che – ricordando il modo in cui s’accendono le luci e quanto appreso nell’esperimento dei tre specchi – ci sembra dipendano dalla lontananza da Dio, che determina il minor grado di luminosità e la conseguente minore letizia per gli esseri che ne sono maggiormente lontani.


 

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