Il Confine Labile fra Visibile ed Immaginabile

di Paola Geranio

 

 

   

 

La raffigurazione del corpo è sempre stata, nel corso della storia dell’arte, oggetto di studio e di controverse teorie interpretative. La rappresentazione della formazione anatomica costituisce un concetto visivo che ci permette di comprendere la natura e ciò che ci circonda attraverso un’immagine esteriore, la quale, portandoci in una sorta di viaggio mentale, ci accompagna nella scoperta di un mondo naturale ed innaturale al tempo stesso, generato da idee e composizione intimamente concettuali.

Lo studio del corpo nell’arte, come del resto lo studio del corpo a livello scientifico, si è sempre sviluppato per frammenti, basti pensare alle tavole di Leonardo ( fig.1 e 2), che meticolosamente classifica le parti come componenti di un tutto  trattandole però come elementi divisi.

 

 

 

 

Nel concetto scientifico, identificare il singolo pezzo come parte da analizzare risulta necessaria alla buona conoscenza del complesso studiato, nell’arte invece, la capacità di “smontare” un elemento e renderlo a se stante lo glorifica e lo rende unico, conferendo allo stesso un significato ed una valenza ben maggiori di una mera parte componibile. La struttura generata dalla capacità di rifunzionalizzare un singolo elemento conferisce distacco e capacità interpretativa, spostando l’osservatore da un punto certo (quello scientifico) ad uno incerto (quello artistico) carico di immaginario e capacità creative.

I rimandi ad una relazione anatomico- scientifica tra arte e studio del corpo umano nel corso della storia dell’arte, passano inevitabilmente nelle raffigurazioni di Rembtandt _Lezione di anatomia- (Fig.3) in cui la ricerca della verità scientifica viene riprodotta fedelmente ma allo stesso tempo reinterpretata in chiave simbolico- teatrale, quasi a conferire una sacralità estrema ed indissolubile ad un gesto apparentemente asettico e privo di moralismo.

 

 Ecco che l’arte ci illude di poter trovare una via relativamente immaginifica, nel corso della quale possiamo sistemare segnali ed identificare un codice di demarcazione tra reale, crudo e scientificamente corretto con ciò che non lo è più, con l’idea. L’idea di per sé è un concetto astratto e determinante a seconda del soggetto fruitore, quindi volubile e mutevole. L’immagine del corpo nella storia dell’arte ci disorienta a volte, portando la conoscenza verso punti oscuri, verso interpretazioni poco riscontrabili. A volte, una sorta di gioco illusorio può essere la volontà di portare lo spettatore altrove, fargli varcare il limite del conosciuto verso la riflessione di ciò che ancora a lui è oscuro, a tal proposito vengono alla mente le immagini delle illustrazioni anatomiche  a strati di William Hunter (fig.4). Lo spettatore si ritrova nel ruolo del carnefice, sfogliando l’immagine lembo dopo lembo entra nel più profondo della conoscenza anatomica ed astrazione naturalmente conosciuta.

Nei ritratti della vanitas  la volontà di andare oltre la rappresentazione scientifica è dichiaratamente dimostrato dalla capacità degli artisti di conferire sentimento e interpretazione poetica al disegno anatomico.

La tela di Bernardo Strozzi –Vanitas ( la vecchia civetta) del 1637  è un chiaro esempio del concetto anatomico interpretativo in chiave sentimentalistica (fig.5). Nel ritratto dello Strozzi le componenti anatomiche evidenti in primo piano, i nervi scoperti del corpo e le guance scavate a rimarcare la presenza di un cranio evidente sotto la pelle lasciano il posto al sentimento ed al coinvolgimento emotivo, la rappresentazione anatomica diviene pretesto interpretativo.

 

 Generalmente, la visione anatomica sia nel suo complesso che nella sua frammentazione viene facilmente riconosciuta dall’occhio umano,  abituato all’utilizzo nelle immagini quotidiane del corpo come merce comune.

Sia nel tempo antico che nei tempi più attuali la crescente riconducibiltà ad un modello comune anatomico spesso finisce per condurre ad una mortificazione delle forme, abituando l’osservatore alla semplice  ed evidente icona del fisico.

Il fatto di riuscire a ricondurre parte di un intero (e quindi una parte quasi astratta di una rappresentazione) ad un modello già conosciuto ci rende fruitori e decodificatori di realtà al tempo stesso. La fruizione dell’immagine stessa senza la sua evidente appartenenza rende l’osservatore parte della decodifica, lo rende verbo ed immaginario, ecco che chi osserva si ritrova ad essere mediatore, in una realtà soggettiva che non rispecchia l’obbiettività del reale ma solamente una sua possibile interpretazione.

L’onirico prende forma da ciò che  conosce per sfociare in immagini e scenari che la mante, reduce di un retaggio personale, identifica ed interpreta in modo unico ed irripetibile.

Paradossalmente più  un’immagine, nel suo intero, ci risulta naturalmente comprensibile, più siamo condotti a credervi ed a dare ad essa veridicità , trascendendo il visibile.

Come le figure realistiche- immaginifiche di Ron Mueck (fig. 6A e 6B) che spiazzano lo spettatore per la loro perfezione  e lo spostano da un punto certo alla domanda del  “dove, come?” impedendo un collocamento adeguato all’opera, perché sempre troppo grande o troppo piccola ma mai nella misura conosciuta e ordinaria.

 

 L’occhio risponde ad un esigenza elementare, quella di ricondurre l’immagine osservata ad un database di conoscenza che ci permette di incasellare l’oggetto osservato e “tranquillizzare” la psiche sulla sua appartenenza ad un confine conosciuto.

Nel caso ciò non avvenga immediatamente si può incorrere nella possibilità di astrarre l’osservato, e creare una concettualizzazione, creare cioè un’ altra realtà, una realtà “alternativa” volta al riconoscimento immediato.

Il riconoscere immediatamente ciò che si osserva non è cosa banale o facilmente ignorabile, è parte di un’esigenza della psiche umana insita in ogni essere, avviene naturalmente, la si ricollega ad una sorta di “spirito di sopravvivenza” .

Senso di appartenenza e senso di riconducibilità al conosciuto sono elementi intimi , si fanno carico in altre parole di mantenere l’uomo in una sorta di confine non allarmistico diretto ad una visione altra rispetto alla mera sopravvivenza della specie.

È evidente che se un’immagine non riconosciuta ci incute un senso di malessere o disorientamento la sensazione prevale sulla riflessione e ci porta a ricondurre ferocemente l’immagine osservata ad un confine noto, creando parentele e congiunzioni con oggetti non necessariamente appartenenti alla medesima categoria.

A tal proposito sono un esempio i lavori di un artista italiano contemporaneo Dany Vescovi, che utilizzando ingrandimenti macro di strutture acquatiche, anatomiche e ingrandimenti al microscopio trasforma la trama ed il decoro in una figura decorativa astratta ed allo stesso tempo figurativa  (fig.7).

 

Vino rosato fotografato al microscopio

 

La rottura tra reale e naturale si accentua con la venuta del cinema, elemento dissacratorio per eccellenza nei confronti del corpo e delle sue forme. La macchina da presa rapisce l’osservatore e lo catapulta a livello empatico in un vortice di sensazioni amplificate e identificate nel cui turbine, la capacità di decontestualizzare l’osservato diviene molto difficile.

Buñuel insieme a Dalì nel 1929 creano il cortometraggio : ”Un chien andalou” ed in una scena famosissima viene mostrato un occhio tagliato in due da una lama di rasoio (fig. 8), al giorno d’oggi, il nostro occhio abituato e viziato a ben cose peggiori viene comunque infastidito da un’immagine tale, si pensi quindi cosa poteva suscitare e che potere evocativo e distruttivo avesse al tempo.

 

 

 

La falsa credenza che per essere osservato attentamente un corpo deve rimanere immobile è veicolo di incomprensione per un occhio poco allenato alla rappresentazione del gesto; il futurismo richiama alla mente il tentativo di condensare gesto , arto e fruizione dell’immagine stessa nel medesimo istante ponendo l’osservatore ad un bivio critico ed interpretativo nel quale spesso si fatica ad uscirne indenni ed a collocare l’immagine nel piccolo recinto del già visto del conosciuto. Infatti, a differenza del cinema dove l’immagine in movimento è sintetizzata dalla velocità del fotogramma, nell’immagine unica la sovrapposizione di più momenti disorienta e porta altrove.

 

 

Giacomo Balla – Bambina che corre sul balcone- 1912

 

L’instaurazione di rapporti paradossali tra arte e scienza rimanda al confine che la carne ed il sangue instaurano con la natura umana e con ciò che ne deriva. La capacità dell’uomo di essere un’entità empatica e ricettiva rende la sua mente e le sue capacità molto più elastiche ed espandibili di quanto si creda, così, a volte, si possono scorgere opere di estrema crudezza e bellezza, nelle quali è riassunto tutto il genere identificativo del soggetto con l’oggetto osservato e percepito.

Nelle vivisezioni sin dall’antichità per poter studiare, capire,e  ottenere risposte che la sola esteriorità non era in grado di dare si è arrivati ad una definizione di sano e malato che aveva confini ben precisi.

L’arte si inserisce in detti confini come un filo unificatore, una cucitura che mostra due lembi della stessa coperta, dissimulando le convenzioni in fantocci da bruciare e ricostruire per poter ri-distruggere. Questo il lavoro di Marc Quinn, che utilizza il proprio sangue come materiale nobile per un autoritratto (fig. 9) ed elegge a modelli d’eccellenza corpi menomati e invalidi (fig.10) , dando loro vita eterna e valore assoluto nel marmo lucido e liscio come le statue greche che personificavano la perfezione umana, collegando uomo e divino attraverso l’osservazione e contemplazione dell’anatomia assoluta.

 

 

   


Articolo pubblicato nella rivista LexAurea42, si prega di contattare la redazione per ogni utilizzo.

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