Jung e l'Alchimia

di Antonio D'Alonzo

 

 

   

  

                                                           Jung è consapevole che «la psicologia potrà pure spogliare l’alchimia dei suoi misteri, senza però riuscire a svelare il mistero dei misteri»[1]. L’alchimia è una tradizione storicamente determinata che non può essere considerata come mera produzione onirico-simbolica. Il “mistero dei misteri”, di cui scrive Jung, non concerne la concreta esistenza storica di un insieme di pratiche alchemiche perseguite nei secoli e nei diversi contesti culturali, quanto piuttosto il fondamento di questo sapere, ossia la relazione tra spirito e materia. Lo psicologo svizzero intravedeva nell’alchimia un campo del sapere arcaico, inesplorato dalla scienza sperimentale, sul quale fondare le proprie teorie attraverso lo studio dei processi psichici d’integrazione: lo stesso Jung rivela come fosse stato un sogno rivelatore ad indirizzarlo verso l’’alchimia.

 

L’alchimia, per Jung, sarebbe una sorta di antica “tecnica dell’anima”, in grado di realizzare– mediante l’apparato simbolico – il Sé, il principium individuationis, strutturato attraverso l’esplorazione integrativa dell’Io nell’inconscio. Tramite questa chiave interpretativa acquista particolare rilevanza l’immagine del laboratorio come metafora della personalità, attraverso cui ottenere la trasmutazione (principio d’individuazione) del metallo (Io) nell’oro (Sé). Le applicazioni alchemiche simboleggerebbero, ritualmente, il processo di perfezionamento interiore. Il lavoro dell’alchimista non sarebbe altro che un’allegoria inconscia del percorso di perfezionamento introspettivo: anche quando egli opera empiricamente, riproduce- consapevolmente o meno – la parabola del viaggio interiore del Sé. In Psicologia e Alchimia, Jung estende la sua ermeneutica simbolistica all’analisi della ricezione storica delle correnti alchemiche occidentali, allargando diacronicamente il campo di ricerca strutturale all’esegesi testuale, mentre la materia è identificata con il principio di ordine femminile che compendia sinteticamente la trinità cristiana, esprimendo così la reintegrazione dello spirito con il mondo materiale ed il negativo.

 

Nel Rosarium philosophorum, ad essere evidenziate sono soprattutto le “nozze chimiche” del re e della regina, funzionali all’analisi del fenomeno del transfert. È proprio il quarto fattore dialettico, di contro all’idealismo hegeliano, a garantire la riabilitazione della polarità femminile e del principio passivo, giacché,

 

 

 

«il lavoro sulla materia riabilita simbolicamente la polarità femminile e oscura della realtà, quella che chiamiamo “male”, che la teologia cristiana di Agostino, dopo la sconfita dello gnosticismo e del manicheismo, aveva privato di realtà ontologica»[2].

 

 

 

Jung dedica grande spazio agli scritti di Paracelso, allo “spirito Mercurio” ed al simbolismo dell’albero. Ma è soprattutto la figura di Zosimo di Panopoli (III-IV d. C.),  ad essere al centro dell’interesse junghiano.  Ad affascinare Jung, nei trattati di Zosimo, è stato, probabilmente, l’aspetto visionario dell’opera, sono state le proiezioni oniriche sull’oggettività della materia, percepita dagli alchimisti come sostanzialità intrinseca e non come mera risultante delle dinamiche del processo inconscio d’individuazione. Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima opera prima della scomparsa, Jung sembra rendersi conto che l’integrazione dialettica del quarto termine- la materia- nello schema trinitario divino, pur esprimendo simbolicamente la Totalità, non la realizza concretamente, limitandosi ad indicarne la mera possibilità. La concretizzazione del lavoro alchemico è data soltanto dall’unione effettiva, ossia spirituale, tra uomo e cosmo (Unus Mundus, secondo la terminologia dorniana). Alla fine, dunque, Jung nel suo costruttivo approccio all’alchimia, rinuncia ad oltrepassare il confine dottrinale tra la rassicurante riva dell’interpretazione psicoanalitica e i turbinosi ed oscuri flussi carsici dell’operatività iniziatica. A fronte della sterminata erudizione in materia, egli rimane uno psicologo, distante anni luce dai seguaci della neognosi contemporanea. Il compito di ampliare l’orizzonte epistemologico delle ricerche junghiane sull’alchimia è stato raccolto da due continuatori della sua opera, Marie Luise von Franz e Robert Grinell. La prima collega le elaborazioni junghiane sulla coniunctio alchemica con la teoria della sincronicità, riallacciandosi al lascito della classica dottrina esoterica del micromacrocosmo, ossia della dimensione antropocosmica del Tutto. Grinnell, dal canto suo, preferisce concentrarsi sulla rielaborazione “alchemica” dei processi psicoidi, definiti come interazioni inscindibili di spirito e materia, escludendo del tutto la possibilità di una qualunque lettura unilaterale che prescinda dalla coniunctio dei due termini.

 

Possiamo dunque sostenere come la scienza alchemica, nell’opera dello psicologo svizzero, assurga a linguaggio privilegiato per esprimere una serie d’interazioni fondamentali obliterate dal paradigma del dualismo cristiano e cartesiano, dominante nella civiltà occidentale. L’alchimia, secondo Jung, compensa, integra, ricongiunge la lacerante scissione del corpo dell’uomo moderno con il Regno della Natura, riuscendo ad armonizzare nell’Uno la dicotomia del soggetto e dell’oggetto, dell’osservatore e del fenomeno. Non siamo alla presenza di un controparadigma dunque: ma, piuttosto, di un tentativo di rettificare, con l’armonia degli opposti, lo squilibrio ratiocentrico causa di tante nevrosi contemporanee.

 

Jung, ha confessato di essersi sentito a lungo isolato, nella sua lunga attività di ricerca. Di essere stato un solitario, perché interessato a cose «che gli altri ignorano, e di solito preferiscono ignorare».[3]. Jung fu dapprima emarginato per il suo interessamento alle teorie freudiane ed a quello strano metodo- la “psicoanalisi”- che si proponeva di curare gli isterici con la terapia dell’ascolto e prescindendo da terapie coatte. Ma il pensiero di Freud era troppo focalizzato sulla libido e sulla «numinosità» del tema dell’incesto- in altre parole, ratiocentrico e illuministico- per sfiorare nel profondo gli interessi culturali e speculativi dello psicologo di Basilea, da sempre stimolato da argomenti inerenti la dimensione sovrapersonale del simbolismo religioso e mitologico. Jung arriva presto a cogliere la valenza di strutture inconscie declinate nelle modalità di

 

a-priori collettivi, definiti “archetipi”, minimizzati da Freud. Si consuma dunque la rottura con Freud ed inizia, per Jung, un nuovo periodo di disorientamento interiore ed isolamento. Tra il 1918 ed il 1926, Jung comincia ad interessarsi alle dottrine gnostiche, giudicandole, tuttavia, culturalmente troppo distanti dalla mentalità contemporanea. L’incontro con l’alchimia fornisce il “ponte” del legame storico tra il passato stratificato nelle dottrine gnostiche e neoplatoniche ed il presente, costituito dalla moderna scienza dell’inconscio. L’alchimia fornisce a Jung le basi storiche su cui strutturare le proprie ipotesi di lavoro e le prefigurazioni letterarie dell’esperienza interiore maturata durante la giovinezza e nel primo periodo freudiano. Nel 1928, Jung riceve dal grande sinologo tedesco Richard Wilhelm un testo di alchimia taoista, Il segreto del fiore d’oro, che dischiude a Jung nuovi orizzonti speculativi. In particolare, grazie alla lettura dei testi di alchimia, egli riesce a interpretare il significato di un sogno, in cui si trovava imprigionato nel XVII secolo. Lo psicologo svizzero sogna di trovarsi in guerra e di rientrare dalle prime linee sul carro di un contadino trainato da un cavallo. Successivamente, un castello compare all’orizzonte, il carro entra all’interno dal portone principale. All’improvviso, tutti i portoni si rinchiudono ed il contadino esclama che lui e Jung sono prigionieri del XVII secolo

 

Jung coglie l’evento come il segno della predestinazione personale allo studio sistematico ed esaustivo della letteratura alchemica. L’alchimia diventa, per Jung, l’equivalente storico della psicologia del profondo, grazie alla quale può concepire l’inconscio alla stregua di un processo individuale e collettivo di trasformazione che interagisce e si relaziona con la sfera cosciente, dinamica che prende il nome di processo di individuazione; ma l’alchimia fornisce allo psicologo svizzero le chiavi esegetiche per interpretare un universo di significati simbolici e immaginali. La figura di Paracelso, ad esempio, permette a Jung di esaminare il rapporto dell’alchimia con la cultura religiosa del tempo. In Psicologia e Alchimia, Jung compara e mette in relazione simbolica Cristo al lapis philosophorum, la leggendaria pietra che gli alchimisti cercavano di produrre nei loro laboratori. Nel frattempo diversi sogni danno a Jung la prova di essere sulla strada giusta. Una notte, Jung, al risveglio, ha un’allucinazione ipnopompica e visualizza un grande crocefisso verde-oro deposto ai piedi del letto. Lo psicologo svizzero interpreta il sogno come una visione alchemica di Cristo. Nel Segreto del Fiore d’Oro, Jung descrive il processo taoista di circolazione dell’energia vitale all’interno del corpo, ma soprattutto riesce a mettere efficacemente in relazione la ricerca dell’elixir interno cinese (nei tan) con l’istanza medievale e cristiana del corpo spirituale, giungendo ad avere l’intuizione decisiva sul segreto dell’opus come coniunctio oppositorum, trasmutazione della materia grossolana in materia spirituale: in termini psicoanalitici, interrelazione della coscienza con l’inconscio, processo volto a determinare il Sé, o principio d’individuazione.

 

Nel Mysterium Coniunctionis, l’ultima vera opera prima della scomparsa, Jung affronta i testi di Ripley, Dorn, Abraham Eleazar, basandosi soprattutto sull’analisi ermeneutica del simbolismo alchemico. La coniunctio junghiana della materia e dello spirito s’innesta in un “luogo intermedio” (metaxû), dove la coscienza e la materia psichica s’integrano interagendo. Negli stessi anni Henri Corbin definirà tale strato come Imaginale, dando inizio ad una serie di ricerche che delineeranno i contemporanei studi sull’immaginario collettivo, avallati dagli stessi junghiani, ma anche da studiosi di altre discipline, come, per esempio, Gilbert Durand, teorico di un’antropologia dell’Immaginario.

 

 

 

Jung dedica uno studio specifico al panopolita, Le visioni di Zosimo, dove esamina il Trattato sull’arte o Peri aretes ( letteralmente, “sulla virtù”), in cui il panopolita racconta il contenuto di una serie progressiva di sogni, intervallati da brevi risvegli, quasi a scandire il tempo della produzione onirico-simbolica e dell’interpretazione cosciente. Jung pensa che la serie onirica non rifletta tanto una trasposizione allegorica, quanto piuttosto un’unica visione, in grado di rimandare ad un’esperienza reale, giacché era abbastanza usuale per gli alchimisti dell’epoca incorrere in sogni e visioni durante l’esecuzione dell’Opus, dove contenuti psichici inconsci venivano proiettati sulla materia e sui processi chimici.

 

Anche le visioni di Zosimo rispecchiano, secondo Jung, le proiezioni inconscie sulla materia, un processo dinamico che sembra caratterizzare, pressoché, tutti gli alchimisti. Mediante le proiezioni sulla materia, sul lapis o sull’acqua divina, l’alchimista entrava in contatto- sia pure in forma allegorica- con l’inconscio.  Jung definisce l’imaginatio come «un estratto concentrato di forze vive, tanto corporee quanto psichiche», grazie alle quali l’operatore entra inconsapevolmente in relazione con l’inconscio, e dunque- in ultima analisi- riesce a rielaborare e ridefinire la propria personalità. All’epoca dell’alchimia tardo-antica, infatti- ricorda Jung- non esisteva la rigida separazione cartesiana tra la materia e lo spirito, gli alchimisti operavano dunque all’interno di un ipotetico regno intermedio, che nella filosofia indiana prende il nome di “corpo sottile”. Zosimo, in tal senso, proiettava sulla materia le sue convinzioni filosofiche, fortemente permeate dalle dottrine gnostiche del tempo. Zosimo- come gli altri alchimisti- doveva aver avuto sentore di una qualche sorta di relazione tra la trasformazione della materia ed i processi psichici, senza tuttavia- data la natura inconscia del processo- riuscire a definire con chiarezza le dinamiche sottese all’interazione. Secondo la psicoanalisi, i contenuti inconsci rimossi dai meccanismi censori della coscienza affiorano simbolicamente nei sogni e nelle fantasie. La catabasi del pneuma come Figlio di Dio che discende nella Materia, per liberarsene successivamente attraverso il processo anabatico, corrisponde- sempre secondo Jung- alla proiezione di un contenuto inconscio che si reifica, oggettivandosi nella materia.  Qui si trova anche, secondo Jung, la principale differenza tra il cristianesimo e l’alchimia: in quest’ultima, il processo catabatico non si concentra- come nel primo caso- nel corpo dell’eletto, ma prosegue la sua discesa fino alle viscere “infernali” della materia. L’alchimia, in tal senso, dialettizza la malvagità- d’ispirazione pitagorica e dunque orfica- della Materia, recuperando il femminile, il “male”, la dualità, l’altro sentiero parmenideo. Nell’alchimia la Materia non viene semplicemente sconfessata come “tomba dell’anima”, ma si attua, altresì, un processo volto a liberare l’Anima Mundi imprigionata nella stessa, attraverso la sua redenzione. Per Zosimo, il Figlio di Dio è un Cristo gnostico, del resto secondo Jung, il panopolita apparteneva ad una comunità ermetica, come testimoniato anche dal riferimenti al simbolo del Cratere, titolo di uno dei trattati del Corpus Hermeticum. Nel Commentario alla lettera Omega,  Zosimo denomina Heimarmene, il Figlio di Dio che ha realizzato la liberazione dal regno della cieca fatalità.  Il Figlio di Dio è equiparato ad Adamo- di cui costituisce il lato interiore, spirituale- a sua volta equivalente all’Anthropoos, simbolo della totalità, raffigurato dalla croce e dalle quattro direzioni cardinali: dunque effige della completezza. Nel passo di Zosimo, riportato in Psicologia e Alchimia, assistiamo ad una serie di connessioni allegoriche: l’Adamo terrestre è equiparato a Thoth, l’Ermete egizio, e a Epimeteo; mentre Cristo- l’uomo interiore, l’Adamo Celeste, l’Adam Qadmon cabbalistico- è equiparato a Prometeo e ad un uomo di luce, puramente spirituale. Tuttavia, sempre per Jung, l’uomo di luce è una riplasmazione cristiana dell’originario archetipo dell’Uomo primigenio, idea filtrata dal neoplatonismo e rielaborata dagli umanisti fiorentini del XV secolo.

 

Zosimo pone come antagonista del Figlio di Dio, l’Antimimos daimon, l’imitatore, che qui simboleggia il principio del male; tuttavia, non si deve pensare a queste dicotomie come sostanziali ipostasi metafisiche, al contrario il dualismo è soltanto uno stato intermedio, preparatorio della superiore sintesi monistica che scioglie le contraddizioni del mondo fenomenico. Il Mercurio alchemico è ecletticamente in grado di “diventare tutto” e superare le aporie. Simbolo dell’onnipresenza pervasiva dell’Uno-Tutto è l’ouroborus, il serpente che si morde la coda, allegoria della circolarità della trasformazione, della duplice natura dell’anello perenne del divenire: come Giano Bifronte, la luce e la tenebra, il bene ed il male, il Basilisco ed il Salvatore, lo scorpione e la panacea, non sono che due facce della stessa medaglia. Come la Grande Madre Kali che crea per distruggere e distrugge per creare, l’ouroborus divora e rigenera se stesso, allo stesso modo in cui l’ermafrodito dialettizza riunificando la scissione degli opposti, originata dal rancore di Zeus verso la felicità androgina, secondo la celebre immagine del Simposio platonico. L’Anthropos di Zosimo testimonia proprio il tentativo di ripensare l’intero e la totalità, che in termini junghiani significa intuire il principio d’individuazione, il Sé, il punto d’interrelazione tra la coscienza e l’inconscio. Mercurio è equiparato all’Ouroboros, il serpente che divora se stesso, simbolo della trasformazione autorigenerante ed entrambi si riconducono all’Ermafrodito: si tratta di spiriti ctoni, che possiedono un aspetto maschile e spirituale ed uno femminile e grossolano. Non a caso, ricorda Jung nella prima materia, nous e physis sono diventati identici ed indistinguibili, una natura abscondita che si richiama al mito gnostico della prigionia di Sophia nel mondo della manifestazione grossolana:

 

«Il mito gnostico originario ha subito una curiosa trasformazione. Nella prima materia nous e physis sono diventati una sola cosa indistinguibile, una natura ascondita[4] »

 

 

 

Ovviamente, Jung non avrebbe mai potuto avallare il mitologema gnostico della divinità imprigionata nel regno della Materia, ma le sue grandi capacità interpretative gli hanno permesso di rileggerne i contenuti in chiave psicoanalitica. Il processo alchemico, la lavorazione della Mathesis, è riconducibile alle proiezioni del rimosso inconscio nella materia, ossia al ritorno del perturbante nella coscienza, processo che normalmente trova la sua esplicazione nei contenuti onirici e nelle fantasie:

 

«il processo consiste in un’invasione della coscienza da parte dei contenuti inconsci, ed è così strettamente connesso al mondo di idee alchimistico da giustificare la supposizione che nell’alchimia si tratti di processi identici o almeno molto simili a quelli dell’immaginazione attiva e dei sogni, dunque, in ultima analisi, del processo d’individuazione[5]»

 

 

 

. L’alchimista non era consapevole di realizzare un processo di divinizzazione o d’imitatio Christi. Tuttavia, giacché il lapis, altro non è che una proiezione del Sé, quest’ultimo è equiparabile al Redentore: l’alchimista che fosse diventato capace di analizzare le sue proiezioni «<…> non solo avrebbe visto in sé l’analogo di Cristo, ma avrebbe dovuto riconoscere in Cristo il simbolo del Sé [6]».

 

 

 

La differenza tra l’ortoprassi cristiana e  l’opus alchemico risiede nel fatto che mentre la prima si configura come un operare nel mondo in onore di Dio Redentore, nella seconda è l’uomo stesso ad essere investito del carattere di Redentore, circoscritto, però, al ruolo di medium, di strumento per liberare gnosticamente il divino imprigionato nella materia. Mentre nel cristianesimo la redenzione scende dall’esterno e dall’alto su tutti gli uomini di buona volontà, nell’alchimia l’Artifex si autoredime redimendo la materia:

 

 

 

« il cristiano ottiene ex opere operato i frutti della grazia; l’alchimista si crea invece ex opere operantis (in senso letterale) una “medicina”, un “rimedio” di vita, che per lui o sostituisce i veicoli della grazia offerti alla Chiesa, o è il complemento e il parallelo dell’opera di redenzione divina che prosegue nell’uomo»[7].

 

 

 

All’epoca, doveva essere molto diffusa nell’immaginario religioso, l’immagine dello spirito prigioniero delle tenebre del mondo, nell’attesa della liberazione, operazione che avrebbe portato alla salvezza personale dell’eroe e di tutto il creato. È evidente che la liberazione dello spirito si limitava alla proiezione degli archetipi o dei contenuti inconsci nella materia, ma nel sentire comune degli alchimisti la realizzazione dell’opus avrebbe dovuto garantire la restaurazione dell’armonia edenica perduta, ossia, ancora in termini psicoanalitici, l’afferenza e l’interelazione dell’inconscio con l’Io, il principio d’individuazione.

 

Tre tipi di simbolismi alchemici

 

In questo paragrafo- per motivi di spazio- analizzerò soltanto tre tipologie tra i diversi simbolismi onirici presenti nel sogno di Zosimo ed interpretati da Jung. Si deve notare come sia possibile ritrovare molti di questi simboli anche al di fuori della produzione onirica propriamente detta, ad esempio nell’iconografia religiosa, nella produzione letteraria o nell’elaborazione figurativa artistica.  Possiamo, dunque, rilevare insieme ad Jung, come il simbolismo religioso- e quello alchemico in particolare-costituiscano il fondamento strutturale in grado di connettere la produzione inconscia del soggetto all’esperienza ordinaria della sfera razionale.

 

 

 

                       a) L’acqua e l’ouroboros

 

Jung focalizza la sua attenzione sul simbolismo dell’acqua- introdotto dallo stesso Zosimo nell’apertura del trattato- perché nelle diverse tradizioni religiose è associata al sorgere della vita ed alla purificazione. Inoltre, nella psicoanalisi, l’acqua raffigura l’inconscio. Nell’alchimia, l’acqua è detta Aqua Divina o Permanens, e viene estratta dal Lapis- in questo caso inteso come Materia Primordiale- attraverso la cottura del fuoco o con un colpo di spada dall’Uovo Cosmico, simbolo della totalità allo stato potenziale, oppure viene ricavata tramite la Separatio, la scomposizione nei quattro elementi (Radices). L’aqua divina si trova nella materia come Anima Mundi (anche detta Anima Aquina). il processo della separatio viene rappresentato allegoricamente con lo smembramento del corpo umano e simboleggia il principio della trasformazione che scandisce le diverse fasi dell’opus ed il passaggio dalla nigredo all’albedo.

 

 

 

Un altro simbolo dell’aqua divina è il serpente mercuriale che viene fatto a pezzi e richiama lo smembramento del corpo umano, metafora dell’autotrasformazione rigeneratrice, efficacemente richiamata dall’ouroboros, il rettile che si divora la coda. Secondo Mertens, Zosimo potrebbe aver preso l’idea dello smembramento del serpente, funzionale all’edificazione del tempio, da un testo magico denominato lapidario Orfico, dove si affronta la tematica dello smembramento del rettile con l’aiuto di una spada ed in prossimità di un altare.

 

È interessante notare come nel simbolismo dell’Ouroboros il contatto della bocca con la coda, possa presentare un significato ambivalente. Alla prima impressione, sembra che il rettile si stia mangiando le estremità inferiori, ma niente vieta di pensare che, al contrario, stia fecondandosi la coda ed il corpo stesso. Quest’ambivalenza deve essere intesa come un tentativo di uscire dalla dicotomia dell’esperienza empirica, in cui l’osservatore è sempre costretto a riconoscere davanti a se un oggetto, riportando la speculare metafisica cristiana al paradigma neoplatonico d’ispirazione monistica, mentre nella prospettiva junghiana testimonia il tentativo di sciogliere la polisemia dei costrutti onirici nel principio della sincronicità.

 

Non a caso, nella prima visione di Zosimo appare la figura del sacerdote che sacrifica se stesso: richiamo evidente all’ouroboros, ma anche- secondo Jung- a Cristo. Non è casuale- nell’interpretazione junghiana- che l’autosacrificio sia perpetuato attraverso lo smembramento, motivo che richiama la tradizione misterica dei culti di Dioniso, fatto a pezzi dai Titani, e dell’Orfismo, in cui lo stesso eroe viene dilaniato dalle menadi. Del resto, nelle Baccanti, Euripide descrive le menadi all’estatico inseguimento di un cervo da dilaniare ancora vivo con i denti come massima manifestazione dell’orgasmo dionisiaco.

 

 

 

b) Lo scorticamento e la decapitazione

 

L’altare a forma di coppa, in cui nel sogno di Zosimo vengono fatti bollire gli uomini, rimanda al simbolismo dell’Atanor e del forno alchemico. La morte e resurrezione simbolica per scorticamento, cui viene sottoposta la principale figura del sogno di Zosimo, rimanda, secondo Jung, al mito del dio Attis- morto dissanguato, dopo essere stato attaccato da un cinghiale- a quello di Marsia, che aveva osato sfidare Apollo in una prova musicale, ed allo stesso Mani, contemporaneo di Zosimo. Il rito dello scorticamento, ricorda Jung, era presente ad Atene, dove ogni anno si scuoiava ed impagliava un bue, ma esisteva anche tra gli sciiti, i cinesi, gli abitanti della Patagonia. Anche nel pantheon meso-americano, a fronte di una complessa cosmologia simbolico-numeriaria, gli dei si sottopongono a numerose morti per scorticamento per riprodursi nei relativi doppioni delle stesse divinità. Nella visione di Zosimo, il rito di scorticamento concerne il capo, ossia è piuttosto uno scotennamento: Jung ricorda, dottamente, come divorare il cuore, il cervello, o indossare la pelle del nemico significasse assumerne le qualità e le caratteristiche vitali: ecco perché, in molte tradizioni arcaiche, il rito era riservato al guerriero fatto prigioniero e sconfitto. Lo scorticamento rappresenta, dunque, la trasformazione rigeneratrice. Si tratta, nell’universo simbolico alchemico, dell’estrazione del pneuma, l’elemento volatile o liquido, dalla materia, attraverso la mortificazione del corpo di quest’ultima.  L’Aqua Divina estratta serviva per rinvigorire il corpo deceduto, ma anche per completare l’ulteriore processo d’estrazione dell’anima. Ecco, dunque, il motivo della circolarità dell’autotrasformazione rigeneratrice presente nell’alchimia: l’essenza è presente ed obliterata nello stesso corpo corruttibile e deve essere estratta per rinvigorire ciò che era destinato alla decadenza della corruzione, o, in alternativa, per assicurare la liberazione dell’anima. Lo schema è presente nel mitologema della morte per smembramento del vecchio re, simbolo dell’ipertrofia dell’Io, sopraffatto- giacché ignaro- dall’inconscio. L’estrazione dell’edema e l’asciugamento del cadavere preludono al rinvigorimento ed alla rinascita vitale: mentre all’inizio il corpo del re era sopraffatto dall’acqua- ossia dall’inconscio- adesso asciugata e separata l’acqua dal corpo si è come aperta la via dell’analisi e si è presa coscienza dei contenuti rimossi.

 

Nel sogno di Zosimo, anche la decapitazione assume un significato importante, perché la testa, effigie di rotondità, simboleggia il movimento circolare che sottende la trasformazione della sostanza arcana. La decapitazione del serpente, dunque, significa che l’adepto è entrato in possesso della sostanza arcana. Da notare, come ricorda Jung, come la testa richiami allegoricamente anche il sole, in connessione simbolica con l’oro, dunque con la stessa sostanza arcana o lapis.

 

c) Il cratere, gli angeli, Iside

 

L’altare a forma di coppa richiama un’immagine ermetica che Zosimo conosce certamente, quella del cratere pieno di nous del IV trattato del Corpus hermeticum, simbolicamente equiparabile anche alla. caverna iniziatica, o all’acqua battesimale che racchiude il passaggio da una stato di coscienza ad un altro. Infatti, Jung riporta un passo in cui Zosimo esorta una discepola ad affrettarsi a immergersi nel cratere, cosicché possa risalire alla sua vera stirpe. È evidente, quindi, il valore iniziatico della coppa-altare: immergendosi in essa, la discepola riuscirà a realizzare il passaggio iniziatico- nella scansione della morte profana per immersione e della rinascita per emersione- entrando a far parte a tutti gli effetti della scuola o del circolo degli alchimisti:

 

 

 

«il cratere di Poimandres è la vasca battesimale in cui possono acquisire consapevolezza gli uomini ancora inconsapevoli e privi della conoscenza, i quali anelano all’ennoia»[8].

 

 

 

 

 

Anche in un altro testo citato da Jung, Iside e Horus, l’acqua assume importanza primaria; del resto- come ricorda lo stesso autore- essa rimanda al Nilo, al grande fiume che in Egitto assicura lo scorrere della vita. Osiride, dio smembrato come Dioniso ed Orfeo, simboleggia il piombo e lo zolfo, quindi, la sostanza arcana. Il piombo è l’acqua che proviene dall’elemento maschile, il quale a sua volta è in connessione con il fuoco, dunque con lo spirito: infatti, come ricorda lo stesso Jung, nel concetto di aqua nostra alchemica, si richiamano simbolicamente, oltre all’elemento acquatico, anche il fuoco e lo spirito.

 

In Iside e Osiride, la dea egizia rifiuta l’unione con due angeli, il secondo dei quali le rivela il segreto della preparazione dell’oro e dell’argento, tradizione che la stessa dea egizia trasmette al figlio Horus. Secondo Jung, l’angelo richiama, al contempo, la sostanza volatile, il pneuma- nell’alchimia da sempre in relazione con l’acqua, in altre parole con la sostanza arcana- ma anche la personificazione delle forze inconscie che si presentano alla coscienza. Non a caso nel sesto capitolo del Genesi, gli angeli dimostrano particolare interesse per le donne della terra, e nel libro di Enoch si congiungono carnalmente con loro. Da questo mito, ricorda Jung, deriva l’usanza delle donne di velarsi la testa, quando entrano in Chiesa. In tutti e due i casi, sia che gli angeli simboleggino la sostanza volatile o le forze dell’inconscio- il perturbante- è evidente il motivo junghiano che attribuisce ad essi la valenza di potenti ierofanie, in grado di simboleggiare l’irrompere epifanico di energie che oltrepassano la sfera della razionalità e della coscienza, segnavia della probità nel cammino d’individuazione.

 

Ma la stessa Iside, ricorda Jung, può essere identificata anche come Materia Primordiale e polarità femminile preposta alla trasmutazione. Il motivo dell’archetipo della Grande Madre simboleggia l’insostanzialità del divenire e deve essere ricercato nello scatenamento degli istinti contrapposti presenti allo stesso tempo nel femminile:

 

 

 

«come Kerény ha dimostrato brillantemente sulla base dell’esempio della Medea, si tratta di una tipica combinazione di motivi di amore, perfidia, crudeltà, maternità, assassinio di congiunti e infanticidio, magia, ringiovanimento e… oro. La medesima combinazione compare in Iside e nella prima materia, e forma il nucleo del dramma causato dal mondo materno, senza il quale pare essere impossibile qualsiasi riunificazione»[9]. 

 

 

 

Il vero significato della Pietra

 

 

 

Jung rileva come Zosimo contrapponga l’uomo “carnale” a quello “spirituale”. Il secondo è caratterizzato dall’incessante ricerca di Dio: tuttavia, non si deve trascurare che l’uomo carnale- ribattezzato Thoth o Adamo da Zosimo- presuppone in nuce, nella sua essenza, l’uomo spirituale, denominato “Luce”. L’uomo carnale e quello spirituale sono anche appellati rispettivamente come Epimeteo e Prometeo, il titano che sposando Pandora è corresponsabile delle disgrazie dell’umanità ed il titano che regala agli uomini il fuoco. I due uomini, nell’esegesi junghiana, formano un unico uomo, ma l’uomo spirituale non può liberarsi dal corpo, perché vi è stato legato da Eva o Pandora. Quest’ultima, dunque, altro non è che l’Anima nel senso junghiano del termine, l’equivalente occidentale della Sakti, la sposa-prolungamento di Siva o di Maya, l’illusione magica sottesa al mondo fenomenico. Nel pensiero junghiano la funzione animica regola l’atteggiamento che l’Io assume nei confronti del mondo interiore, dove si concretizzano tutti quegli aspetti sommersi della personalità che non possono affiorare alla coscienza, a causa dei meccanismi censori. La funzione animica maschile è l’Anima, opposta al ruolo pubblico dell’identità e caratterizzata dal Logos, mentre quella femminile è L’Animus, il cui principio è l’Eros. Dunque Pandora o Eva, nel pensiero junghiano, designa l’Anima. Ma anche il Lapis indica l’uomo interiore, il deus absconditus obliato nella materia; Jung, a questo punto coglie bene l’analogia tra il lapis e Cristo: il Figlio assumendo la natura umana, rivestendosi di un corpo corruttibile destinato alla sofferenza ed alla morte, è in relazione simbolica con il Lapis, il Principio divino nascosto nella materia; ma per Jung, i due termini più che in un rapporto d’identità sono, piuttosto, complementari, ed il simbolo del Lapis serve a compensare la spiritualità troppo rarefatta e lontana dalle possibilità dell’uomo comune. Al contrario, nel lapis, sempre secondo Jung, lo spirito si trasforma nella “carnalità” della materia, fissando gli attributi del Cristo interiore presente nel cuore di ogni uomo. Il lapis dunque completa e corona la redenzione cristica, «esso è il Filius Macrocosmi, al contrario del “figlio dell’uomo”, che viene definito filius microcosmi».

 

Ma il flius macrocosmi, immagine che da sola evoca la reificazione concreta del Principio divino in grado di trasmutare operativamente la natura interiore, non è messo da Jung tanto in relazione con l’Io, quanto con le zone psichiche di confine. Sotto l’aspetto teologico, secondo Jung, il dogma della Trinità è incompleto ed imperfetto, perché amputato del quarto termine- dall’autore, peraltro, richiamato incessantemente nella struttura onirica e nel simbolismo del mandala- il femminile, ossia in termini psicoanalitici, l’Anima. Il dogma dell’assunzione e incoronazione di Maria, per lo psicologo svizzero, in un certo modo riesce a compensare questa carenza, accogliendo l’elemento femminile e conducendo dalla Trinità alla Quaternità. L’equiparazione del femminile alla materia, contrapposta al maschile-spirituale, è raffigurato, nella mentalità degli alchimisti, dal lapis, termine che oltre che pietra, significa anche sostanza arcana, Aqua Divina, materia primordiale. Jung, completa l’identificazione tra il femminile (che diventa demoniaco nei contenuti della rimozione) e la pietra, sovente associata all’utero materno, citando dei paralleli con altre tradizioni, come per esempio Mithra, nato da una pietra o la credenza australiana che ritiene le anime dei bambini non ancora nati, generate dalle pietre o come nel caso dei churingas australiani, pietre di forma allungata, che si crede contengano il mana dell’antenato totemico. La pietra, secondo la tradizione, cura la pazzia di Oreste ed il mal d’amore di Zeus, inoltre in India è usata come fondamento che testimonia la probità dei giuramenti pronunciati da adolescenti e giovani spose. Anche Estsànatlehi, la Changing-Woman Apache, concepita dallo Hieros gamos del padre Cielo e della Madre Terra, è generata dalla pietra, precisamente dal turchese, che Jung identifica con una delle molteplici manifestazioni dell’Anima, equiparabile in tutto alle mediterranee Onfale, Circe ed Atlantide. Jung, per avallare le sue teorie fondate sull’identificazione tra la Pietra e l’Anima- equiparazione che, considerando la maggior diffusione dell’arte regia tra gli uomini, rispetto alle donne, deve introdurre in maniera preliminare quella più estesa tra la pietra ed il Sé, ossia il principio d’individuazione- si appoggia ad una vastissima letteratura mitologica, dove si narra la nascita dalla roccia, intesa, dunque, come utero materno. Ma la pietra richiama altri motivi simbolici correlati con la nascita, assumendo la forma del corpo di un gemello malvagio- come nel mito irochese- oppure servendo, addirittura, da principio fertilizzante. Tra i Pueblo del Nuovo Messico, l’eroe civilizzatore nasce da una vergine ingravidata da delle pietre, mentre Quetzalcoatl, il serpente piumato del pantheon meso-americano, nasce dopo essere stato concepito da una gemma di color verde; colore che- associato ad un minerale- svolge una funzione vivificatrice anche in altre tradizioni: si narra, ad esempio, che il Graal sia uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero. Considerando anche il culto dei menhir megalitici e quello aborigeno dei churinga, sopra citati, possiamo convenire, insieme ad Jung, come il Lapis da sempre sia un simbolo dell’immortalità che sopravvive al cambiamento del divenire. Quindi il lapis conferisce ricchezza e salute a chi lo possiede, è un elixir ed una panacea. In altri termini, secondo la prospettiva della psicologia del profondo- l’unica che può interessare Jung- il Lapis, proiezione maschile e femminile rispettivamente dell’Anima e dell’Animus, è il Sé, il Principium Individuationis., l’idea della totalità trascendente. Il Lapis è l’uomo interiore, integrale o primordiale, armoniosamente equilibrato nelle sue componenti di corpo, anima e spirito. La seicentesca metafisica cartesiana, al contrario, rimuoverà la dimensione spirituale, equiparando l’anima allo spirito e ricadendo nelle dicotomiche contraddizioni del dualismo meccanicistico. Il lapis, al contrario, presume lo sviluppo armonioso dell’uomo integrale in tutte le sue funzioni. Certamente Jung rifiuta la possibilità di considerare lo spirito secondo categorie metafisiche, ma non per questo ne rifiuta l’istanza a priori. Al contrario, per il fondatore della psicologia del profondo, lo spirito è il Sé, mentre l’Anima o l’Animus equivalgono a proiezioni inconscie. In tal senso, l’equiparazione proposta dagli alchimisti tra il lapis e l’uomo interiore non poteva non condurre- in epoca cristiana- a quella con il Redentore. Nel sogno di Zosimo, il lapis si manifesta come aqua divina, motivo in se stesso correlato con il rito battesimale. Come ricorda Jung, l’acqua miracolosa rappresenta- richiamando la metafora dello scorrere delle onde- il flusso della morte e delle nascite, il divenire. Produrre il lapis, tuttavia, significa generare,

 

 

 

«il corpo incorruttibile, la “cosa che non muore”, la pietra “invisibile” e “spirituale”, il lapis aethereus, la panacea di tutti i mali e l’alessifarmaco[10]».

 

 

 

Inoltre, dato che l’acqua richiama metaforicamente il flusso delle rinascite, essa è connessa simbolicamente all’ouroboros, il serpente che si morde la coda, a sua volta- per certi aspetti- imago dello stesso Cristo: accostamento, peraltro, ricorrente nello stesso gnosticismo. Tuttavia, l’acqua miracolosa e l’ouroboros  non intendono certamente avallare la figura del Salvatore così come viene “semplicemente” propugnata dai Vangeli Canonici. Il Cristo di cui parlano gli alchimisti ha forti similitudini con il deus absconditus obliterato nella materia, con il Nous gnostico caduto nel regno del mondo corruttibile, che attende di essere liberato con l’arte regia e la produzione del lapis.

 

 

 

Conclusione

 

 

 

Sul pensiero di Zosimo, che aveva conosciuto una grande diffusione tra il V  ed il VII secolo d.C., era caduto il silenzio. Il medioevo cristiano non apprezzò il carattere pagano della sua filosofia, mentre gli eruditi del Rinascimento furono allontanati dalle sue opere, dal carattere oscuro e bizzarro delle sue visioni. Si deve, dunque, dare merito a Jung di aver contribuito a salvare Zosimo dall’oblio, dedicando al panopolita uno studio specifico in Studi sull’alchimia, oltre che numerose citazioni e richiami disseminati nel resto della sua opera, anche se già all’inizio del ‘900 era stato Richard Reitzenstein- uno degli ultimi esponenti della Religionsgeschichtliche Schule- ad inaugurare il filone di studi sull’alchimia. Dopo Reitzenstein e Jung, lo studio storico dell’alchimia e dell’esoterismo in genere, non è più guardato con sufficienza e supponenza dal mondo accademico, che, fino a pochissimo tempo fa, relegava ad un’improvvida infanzia dello spirito tutte quelle discipline che si erano sviluppate al di fuori dei rassicuranti confini della scienza moderna. In particolare, Jung ha dimostrato come nel simbolismo alchemico non solo si cela un senso compiuto, ma anche che tutte le operazioni astruse e bislacche degli alchimisti ineriscono all’evoluzione ed alla completezza interiore.  Gli alchimisti, dunque, non erano allora molto diversi dai moderni e le loro ricerche riproducevano sul piano simbolico le istanze dell’uomo contemporaneo. Non solo. Il simbolismo alchemico era presente nel contenuto dei sogni di molti pazienti affetti da nevrosi, e conoscerlo significava accelerare il processo terapeutico. Jung fu il primo a capire che il lapis philosophorum, l’oscura pietra ricercata incessantemente dagli alchimisti, non era altro che il Sé, il processo dinamico delle interrelazione tra la coscienza e l’inconscio. Jung fu il primo a percepire che, dietro alla molteplicità dei contenuti e alla polisemia simbolica degli scritti alchemici, il messaggio era univoco ed universale, poiché parlava all’uomo di tutte le epoche e condizioni. Non sarebbe, tuttavia, onesto tacere sugli eccessi dell’esegesi junghiana, sul suo carattere a tratti inopportunamente programmatico nel tentativo di voler ridurre molte interpretazioni nelle  maglie sistematiche della sua personale lettura; limite, del resto, che si può riscontrare in molti illustri interpreti del passato e che l’ermeneutica contemporanea ha cercato di superare con il principio della c.d. “fusione degli orizzonti”. Forse l’analisi junghiana incorre nel difetto di sopravvalutare in maniera unilaterale l’importanza della dimensione simbolica, dimenticando o trascurando la funzione operativa concreta, su cui lo stesso simbolo alchemico deve essere intrinsecamente fondato. In tutti i casi, le opere junghiane sull’alchimia rimangono una pietra miliare per chiunque voglia accostarsi a quest’ambito di ricerche, indipendentemente dalle diverse finalità che possono delinearsi nel lettore contemporaneo. Il resto, lo regala la “capacità d’ascolto”.

 

 

 

Bibliografia essenziale

 

 

 

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    C. G. Jung, Psicologia e religione,traduzione italiana di Zur Psychologie Westlicher und östlicher Religion, (Opere) vol. 14, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.

    C. G. Jung, Psicologia e alchimia, traduzione italiana di Psychologie und Alchemie  (Opere)Vol. 12 Bollati Boringhieri, Torino, 2003.

    C. G. Jung, Studi sull’alchimia,traduzione italiana di Studien über alchemistische Vorstellungen (Opere) vol. 13, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.

    C. G. Jung, Mysterium Coniunctionis, (Opere), vol. 14, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

    C. G. Jung, Pratica della psicoterapia, traduzione italiana di Praxis der Psychotherapie (Opere), vol. 16 II, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

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    M. Pereira, Arcana Sapienza, Carocci, Roma 2001.

     A. A. V. V. diretta da M. Eliade, “Alchimia”, in Enciclopedia delle religioni, vol. 1, vol. 2, edizione italiana curata da R. Scagno, Marzorati, Jaca Books, Milano 1993.

    M. Eliade, Il sacro ed il profano, Bollati Boringhieri, Torino 1984.

    M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, traduzione italiana di Forgerons et alchimistes  Bollati Boringhieri, Torino 1980).

    M. Mertens, Les alchimistes grecs, tome IV, 1° parte- Zosime de Panapolis, mèmoires authentiques, Les Belles Lettres, Paris 2002.

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    A. Faivre, Accès de l’ésotérisme occidental, vol. II, Gallimard, Paris 1996.

    Dizionario dei simboli, Bur, Milano 1999.

 

 

[1] Cfr. Jung, Mysterium coniunctionis, pp. 165-166.

 

[2] Cfr.  Pereira, Arcana Sapienza, p. 278.

 

[3] Cfr. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, p. 70.

 

[4] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia, p. 333.

 

[5] Cfr, Jung, Psicologia e alchimia, p. 334.

 

[6] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia, p. 343.

 

[7] Cfr. Jung, Psicologia e alchimia,  p. 343.

 

[8] Cfr.  Jung, Studi sull’alchimia, p. 91. l’opera da cui Jung trae la citazione è Zosimo di Panopoli,  Il primo libro del computo finale, in Visioni e risvegli, a cura di A. Tonelli, par. 8.5 p.196.

 

[9] Cfr. Jung, Mysterium coniunctionis,  p. 27.

 

[10]  Cfr. Jung, Studi sull’alchimia, p. 121.

 

   


Articolo pubblicato nella rivista LexAurea43, si prega di contattare la redazione per ogni utilizzo.

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