Il Matto

Alessandro Orlandi

 

Introduzione

Il mazzo dei Tarocchi è costituito da 78 carte, 56 carte suddivise in quattro semi ( ai mazzi di 52 carte noti in precedenza vennero aggiunte le quattro regine)  e  22 Arcani Maggiori: il Matto,  il Bagatto, la Papessa, l’Imperatrice, l’Imperatore, il Papa, gli Amanti, il Carro, la Giustizia, l’Eremita, la Ruota della fortuna, la Forza, l’Appeso, la Morte, la Temperanza, il Diavolo, la Torre, la Stella, la Luna, il Sole, l’Angelo, il Mondo).

 

Eruditi ed esoteristi circondarono la nascita di questo gioco con un romantico alone di leggenda. Alla fine del 700’ Court De Gebelin riteneva i 22 arcani maggiori un libro sapienziale egizio “.. l’unico sopravvissuto alla distruzione delle biblioteche di quella civiltà...” e faceva derivare il termine tarocchi dall’egiziano antico tar - rog : “il sentiero Reale della vita”.  Questa tesi fu ripresa nell’800 da Eliphas Levi , Etteila,  Postel e Papus i quali costruirono complicati sistemi di corrispondenze astrologiche, alfabetiche, numeriche e simboliche. Alcuni sostennero che l’autore del libro era Ermete Trismegisto o il dio egizio Toth, altri che  i tarocchi fossero il risultato di una riunione tra  saggi provenienti da tutta la terra, accordatisi per affidare  alle illustrazioni degli arcani maggiori i segreti del cielo e della terra, della vita e della morte.

 

In particolare i tarocchi furono accostati a uno dei  testi fondamentali della Cabala, il Sepher Yezirath o libro della Formazione, un libo attribuito dai cabalisti allo stesso Abramo, che avrebbe contenuto la scienza necessaria per creare e distruggere il mondo.  Le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, secondo il libro, contengono il potere dei dieci princìpi formatori di cui Dio si servì per creare l’universo, e corrispondono ai dodici segni dello zodiaco, alle varie parti del corpo umano e ai principali fenomeni naturali, mentre i quattro semi [denari(terra), coppe(acqua), spade(aria) e bastoni(fuoco)] rimandano ai quattro elementi. Le ventidue lame degli arcani maggiori, più che uno strumento di divinazione, diventavano così un mezzo per collegare microcosmo e macrocosmo, una chiave per realizzare il dominio dell’uomo sulle cose visibili e invisibili.

 

 Per ciò che riguarda la realtà storica, le carte da gioco vennero introdotte in Spagna, provenienti dal mondo islamico e poi nel resto di Europa nel 1370 circa. 

Il primo mazzo conosciuto di carte, costituito da 56 carte suddivise in 4 semi, 14 per seme, è arabo. Le prime tracce dei Tarocchi veri e propri, invece, risalgono alla prima metà del XV secolo, nell’Italia del nord, (inizialmente  le carte da gioco erano 52 e le quattro regine vennero aggiunte solo in un secondo momento) e quindi si ritiene che l’inventore di questo gioco sia stato italiano. Il gioco conobbe diverse varianti e, tra il 400’ e il 500’, si diffuse praticamente presso tutte le corti europee. Venne praticato soprattutto dall’aristocrazia e fu poco diffuso tra le classi popolari.

 

 

 Il nome con cui i tarocchi erano originariamente noti era “Trionfi”. I cosiddetti Trionfi erano uno dei passatempi preferiti dalle corti rinascimentali italiane: venivano allestiti cortei trionfali con carri addobbati di figure derivate dalla mitologia classica o con astrazioni personificate dei vizi e delle virtù, simili a quelle che sfilano ancora oggi nelle strade durante il Carnevale.  Un elemento ricorrente nei Trionfi rinascimentali è che ognuna di queste astrazioni personificate trionfa, sconfiggendola, sulla precedente. Ritroviamo questa idea nel poema petrarchesco “i Trionfi”, nel quale l’amore trionfa sugli dei e sugli uomini, la castità sull’amore, la morte sulla castità, la fama sulla morte, il tempo sulla fama e l’eternità sul tempo. Il nome “Tarocchi”, di etimologia incerta,  sostituì il termine “Trionfi” a partire dal 1516 e il termine Trionfi venne a designare, anziché l’intero mazzo di carte, solo i 22 Arcani Maggiori.

 

Senza dubbio il mazzo dei tarocchi era collegato al calendario annuale: 52 sono le settimane nell’anno, i quattro semi corrispondono alle 4 stagioni, le 13 carte di ogni seme alle 13 lunazioni dell’anno, la somma dei punti delle carte fa 364 a cui si devono aggiungere una o due “matte”, i giorni “intercalari” del calendario antico.

 

Controversa è  l’ipotesi che i tarocchi siano stati utilizzati fin dalla loro comparsa a scopo divinatorio e che i 22 arcani maggiori siano stati inseriti nel mazzo di 56 carte con 4 semi con questa finalità. Sta di fatto che non esistono prove certe dell’uso divinatorio dei tarocchi fino al XVIII secolo.

Il primo a interpretare occultisticamente i Tarocchi fu Court De Gebelin nel 1781, ma è probabile che le 22 immagini degli arcani maggiori, ideate in un  periodo nel quale le “scienze  occulte” avevano grande successo presso le corti europee, siano effettivamente connesse con un simbolismo esoterico. Tuttavia i testi fondamentali della Cabala ebraica si diffusero dopo il 1486 a opera di Pico della Mirandola e il “Corpus Ermeticum”, fatta eccezione per un libro, fu tradotto in latino da Marsilio Ficino e pubblicato dopo il 1471. Non è dunque probabile un collegamento tra i 22 arcani e queste opere. E’ invece possibile un rapporto tra i tarocchi e il simbolismo astrologico e alchemico. Questa ipotesi è rafforzata da un confronto tra le immagini degli arcani e le raffigurazioni alchemiche dell’epoca.

 Tra l’ottocento e il novecento c’è stata una vera e propria proliferazione di mazzi di tarocchi che si richiamano a un simbolismo esoterico, creati appositamente per un uso divinatorio. Ricordiamo ad esempio i mazzi di Etteila, di Oswald Wirth e i tarocchi della Golden Dawn.

 

 Ai giochi di tarocchi praticati nel rinascimento poteva partecipare un numero di giocatori variabile da due a sette. Le carte seguivano un ordine antiorario e, se il numero dei giocatori era dispari, il gioco dava a chi aveva in mano il punteggio più alto la possibilità di decidere con quale compagno allearsi chiamando una carta, come accade nell’odierno terziglio. Le carte venivano giocate una presa dopo l’altra e ogni presa consisteva di una carta giocata da ciascun partecipante. Chi faceva l’ultima presa otteneva un particolare punteggio. I 22 arcani maggiori funzionavano da briscole (atouts) e spesso l’arcano del Matto aveva un ruolo del tutto speciale perché compensava la mancanza di una carta necessaria alla formazione di una particolare combinazione, come accade con il jolly nei giochi contemporanei. Il gioco dei Tarocchi segnò, anzi, l’invenzione stessa dell’idea di briscola e un’altra ipotesi avanzata sull’uso del termine “Trionfi” è che la briscola  “trionfa” su qualsiasi carta normale.  In una delle versioni più antiche del gioco sette carte, il Matto, il Mago, il Mondo e i quattro Re, fungevano da briscole. Si giocava in due, ma le carte si distribuivano come se si giocasse in tre, cioè con il Morto.

 

 

 

L’arte della divinazione: secondo Graves (“La dea bianca”) si può far risalire alle disfide tra bardi seguaci della luna crescente e bardi seguaci della luna calante. Il tempo delle cose che compaiono e quello delle cose che svaniscono, i due volti della Luna. I due orientamenti dell’I Ching, il “mundano” e il “premundano”.

Gli esagrammi dei Ching, cosi come le lame dei tarocchi, sarebbero degli archetipi “iniziatori”, che iniziano cioè chi li consulta  al linguaggio dell’anima, che parla per simboli e ci offrono una visione più “sottile” della realtà e dei rapporti tra le cose. Secondo questa visione del mondo ogni costellazione di eventi che ci riguarda è pervasa da una musica segreta, da un ritmo che solo i simboli ci aiutano a cogliere, come se essi fossero lo spartito invisibile di quella musica. Chi comprende le esigenze del tempo in cui vive, colui che i Ching chiamano “il nobile”, sa danzare e muoversi secondo il ritmo che quella musica suggerisce,  danza con l’attimo fuggente, e, cosi facendo, armonizza il proprio microcosmo interiore al macrocosmo esterno, segue il sentiero che gli è destinato, “vede” con il cuore.

 

Questa capacità di sovrapporre le immagini simboliche al mondo scorgendo in trasparenza significati e metafore che “rivelano” è naturalmente un’arma a doppio taglio. Impossibile distinguere la “visione profetica” dal  volgare abbaglio e dall’illusione se non si sviluppa la cosiddetta “intelligenza del cuore”.

 Vedere con il cuore, un dono che spesso si acquisisce attraverso il dolore e la sofferenza che si accompagnano ad ogni autentica trasformazione di sé: scaturiscono dal cuore immagini destinate a divenire la stella polare del nostro cammino, ma è importante saperle distinguere da quelle ingannevoli. A questo proposito Omero parlava di due porte misteriose da cui scaturiscono i sogni e le visioni, collegate ai due solstizi, estivo ed invernale, e alle due “porte delle anime” di cui parlano molte tradizioni (si pensi, nella Tradizione induista, al “sentiero del Nord” da cui le anime escono per sempre dal ciclo delle rinascite e a quello del Sud, da cui vi rientrano. Oppure, nella Tradizione cristiana, alle due porte davanti alle quali, sulle facciate delle cattedrali gotiche, sono raffigurate la Vergine saggia e quella Folle).

Secondo Omero, si diceva, sogni e visioni escono da due porte. Da una, la porta di avorio, escono le illusioni, le visioni mendaci, gli incubi, le rielaborazioni fantasiose di vicende vissute nella realtà. Dall’altra, quella di corno, provengono le anticipazioni profetiche, le illuminazioni che ci guidano nella vita, le grandiose visioni che possono ispirare il destino di interi popoli. Analogamente, quando si attinge al pozzo dell’anima per interpretare le lame dei Tarocchi si può cadere vittime delle speranze e dei timori, della brama o della repulsione, o della semplice fantasia, e leggervi vuote proiezioni. Oppure è possibile, tramite il simbolismo delle lame, aprire la porta che ci mette in comunicazione con la scintilla di infinito che ci abita, la stessa porta che aprono i grandi poeti per trarne l’ispirazione che illumina i loro versi.

 Va da se che questa concezione sottende una visione estetica del conoscere, conoscere attraverso la bellezza, attraverso la “luminosità”, la ricchezza di significato che una immagini luminosa proietta sul mondo.

I ventidue Tarocchi divengono allora altrettante “operazioni magiche”, alchemiche, mentali e psichiche, che  agiscono sull’anima: un arcano è ciò che bisogna sapere per operare in modo fecondo in un dato campo della vita spirituale, per passare dalla mera nozione alla sapienza, e dalla sapienza alla capacità di vivere gli eventi della vita nel pieno della coscienza, in tutti i  loro riflessi più sottili.

E’ all’interno di questa concezione che ci muoveremo nel raccontare una piccola parte dei significati simbolici suggeriti dalle lame dei tarocchi che prenderemo in esame. Premettiamo che utilizzeremo, nel trattare le varie lame dei tarocchi, le immagini degli arcani maggiori appartenenti al mazzo cosiddetto “di Marsiglia”, uno dei più antichi e tradizionali.

 

A chi volesse approfondire la storia dei Tarocchi, consigliamo l’opera di uno dei più noti filosofi e logici inglesi:

M. Dummett, Il mondo e l’angelo, Bibliopolis, Napoli 1993.

 

Il Matto

Ogni lama dei Tarocchi è un diamante a due facce, può essere vista dal lato del cammino della coscienza così come una espressione del sonno dell’anima, e il Matto non fa eccezione.

L’arcano raffigura un uomo in viaggio vestito da giullare, morso alla coscia sinistra da un cane che gli lacera i pantaloni. Ha una bisaccia appesa a un bastone, poggiato sulla spalla, che contiene tutti gli averi di questo Viandante. Con la mano destra regge un altro bastone al quale si appoggia nel suo incedere. La numerazione di questa lama, la  numero zero, indica che essa è al di fuori dalla numerazione assegnata alle altre ed esprime la sua estraneità a qualsiasi Ordine.

La carta viene quindi associata alla situazione di chi abbia terminato un ciclo della propria vita senza tuttavia averne iniziato uno nuovo, è l’archetipo del viaggiatore che attraversa una terra di nessuno, egli non si trova più nella città (nell’Ordine cosmico) che lo ospitava in passato, ma non è ancora in vista di quella che lo ospiterà in futuro. La sua Patria non è un luogo abitato sottoposto  un sovrano e alle sue Leggi, ma un labirinto di strade.

 

Questo viaggiatore che , per definizione, “non appartiene”, è immagine di Mercurio, il dio delle strade e dei viaggi, il nume tutelare degli Alchimisti.  La ferita che gli viene inferta dal cane che lo morde, non rimarginata e sempre rinnovata, lo spinge a proseguire nel cammino, e si tratta di quella stessa ferita che caratterizza il “fanciullo” e la “fanciulla” eterni, di quella inquietudine che agita chi deve cercare continuamente. Egli è anche l’eterno Puer che cova in chi non riesce a stabilizzarsi sentimentalmente, a riconoscersi in un lavoro o in un ruolo sociale, che non sente mai definitivamente di appartenere a una famiglia, a una Nazione, a un tempo o una civiltà definiti e, tuttavia, proprio per ciò, porta in sé il seme del rinnovamento.

Il Matto  disfa e ricompone continuamente la trama degli opposti che ci servono per orientarci nell’universo e riesce a ripristinare l’oceano primordiale di colori, odori e suoni che assale i neonati alla nascita. Egli sa invertire la trama del Tempo e scorgere in uno stesso fenomeno le due diverse correnti del Divenire: ora il seme del futuro che si dilata per dare forma a nuove entità, ora il contrarsi delle forme che muoiono, il passato che svanisce e scompare alla vista
Il Folle si aggira quindi nel
l’ inestricabile labirinto del Mondo di Mezzo in cui la nostra intelligenza commisura “dentro” e “fuori” ordinando il mondo in opposti.

Se solo potessimo guardare il mondo con gli occhi di un neonato vedremmo un oceano di colori, di odori  e di suoni. Prima ancora di discriminare un simile caos e tentare di ordinarlo secondo forme e criteri c’è una fase nella quale molte strade possono essere percorse e deve essere ancora stabilito cosa stia in alto e cosa in basso, cosa sia giusto e cosa sbagliato, in quale direzione occorre guardare per vedere le cose che aumentano e crescono, e in quale altra potremo scorgere le cose che diminuiscono.

 

Questa fase di caos percettivo e intellettivo ci conduce a quanto vedremo parlando dell’arcano del Bagatto, alla necessità di “bruciare” e dissolvere le forme pensiero. Una delle fasi fondamentali dell’Opus Alchemicum è nota come “rincrudimento della materia”. In questa fase l’alchimista è sotto l’egida del Matto e deve ricreare consapevolmente il caos primordiale,  rinunciare a tutti gli strumenti intellettuali costruiti nel tempo per orientarsi nel mare dell’accadere,  dissolvere ogni forma interpretativa della realtà, aprirsi totalmente all’ignoto, guardando il mondo con gli occhi di un fanciullo. Solo in questo modo, dicono gli alchimisti, la materia prima della loro Opera diviene attiva ed efficace, senza “Opera al Nero”, senza morire al mondo, senza il “rincrudimento”, senza ricreare quel caos primordiale che accompagnò i nostri primi passi nel mondo, nessuna Opera è possibile.

 

 Il Matto è anche il buffone di corte, che controbilanciava il potere assoluto dei re medioevali. Psichicamente rappresenta la via di uscita dall’Ordine nel quale siamo immersi, la nostra possibilità di gettare uno sguardo critico “da fuori” a ogni universo che ci “chiuda” quasi completamente nelle sue regole e nei suoi stilemi.

 

 Alla domanda: “dove si dirige il Matto?” si può cercare di rispondere concentrandosi sulle sue gambe. Morso a sinistra da un cane, si aiuta a destra con un bastone.

Il morso del cane richiama, come abbiamo detto, la figura del Puer Aeternus, una figura analizzata nei suoi risvolti più segreti da Hillman: quella inquietudine che ci spinge a cercare in continuazione, quell’impulso a sottrarci ad ogni Ordine, ad ogni strutturazione definitiva della nostra vita, che è sempre legato a una ferita che non si rimargina. E’ la stessa ferita del Re Pescatore custode del castello del Graal, un castello che si trova fuori dal mondo, dalla realtà ordinaria, la stessa ferita di Filottete.  Ogni figura di puer aeternus ha una simile ferita, che è la sua ricchezza e la sua maledizione.

 

Ricchezza perché  spinge a guardare al mondo sempre con occhi nuovi, con gli occhi di chi ricerca la verità, Maledizione perché  condanna a non trovare mai requie né riposo in un “porto sicuro”.

L’essenza del Matto si rivela in chiunque si opponga ad un ordine costituito senza aderire necessariamente ad un altro ordine contrapposto.

 Opera nei i buffoni e nei giullari,nei rivoluzionari della prima ora (quelli che poi vengono giustiziati dai loro stessi compagni), si esprime nella ribellione verso ogni norma e autorità, nell’iconoclastia, nell’impulso a vagabondare senza fissare mai definitivamente la propria “patria”, nel motto “una risata vi seppellirà”, nella ribellione del figlio all’ordine instaurato da suo padre.

 

Il Matto trasforma ciò che appare solenne in pomposo, il commovente in sentimentale, il coraggio in presunzione, le lacrime in piagnisteo, l’amore in futile avventura, svela le maschere dietro le quali ci nascondiamo, ci fa uscire dalle rappresentazioni svelando che si tratta di rappresentazioni, ridicolizza le pretese del nostro Ego.  Gilgamesh e Don Chisciotte, Amleto e Faust sono emblemi del Matto.

 


In amore il Matto non riesce a fissarsi su nessuna donna (o uomo) particolare e continua la sua ricerca dell’eterno femminino (o mascolino) attraverso ogni successivo incontro.

 Il Matto è anche una figura tragica: chi lo vivesse senza consapevolezza trasformerebbe tutta la ricchezza che l’archetipo porta con sé in desolante povertà.

E’ il caso di Don Giovanni, che alimenta in sé  il fuoco d’amore in quanto tale, indipendentemente dal suo oggetto. Non riesce a fissarsi su nessuna donna particolare e così è condannato a continuare la sua ricerca dell’eterno femminino attraverso ogni donna.

 

La ferita aperta del Matto è anche l’insofferenza e l’incapacità di adeguarsi a qualsiasi situazione che abbia una forma definita e sia soggetta ad un Ordine. Questo può anche condurre alla dispersione totale di se stessi, ad una ricerca vana e reiterata priva di oggetto.

 

Il bastone che il Matto tiene nella mano destra ed a cui si sorregge è l’Axis mundi: Il Matto è inizio e fine dell’Opera, è anche il saggio che è uscito dagli affanni del mondo ed ha rinunciato a ciò che il mondo poteva offrirgli: al potere come soddisfacimento dei desideri e alla via della conoscenza intesa come acquisizione di nuovo potere (la rinuncia dei poteri dello Yogin nello Yogasutra di Patanjali).

Anche questa è una uscita dall’”Ordine Mondano”, ma dalla parte del Saggio che lo ha trasceso.  Così, oltre che puer, il Matto è anche senex perché non è più radicato al mondo e porta con se il piccolo fardello della sua esperienza personale sorreggendosi,  per il suo sostentamento, all’axis mundi, al suo rapporto con il mondo dei simboli.

Avendo voltato le spalle all’intelletto, di tipo scientifico, o legato a tecniche magiche, o a una prassi di potere, egli viaggia per viottoli secondari.

 

 Con la sublime contraddittorietà caratteristica dei simboli, la lama numero zero rappresenta da un lato l’Adepto alle prime armi e la Materia Prima rozza e ancora non lavorata, dall’altro la Pietra Filosofale dopo il suo compimento e il Mercurio Filosofico degli alchimisti.

 In questa ultima veste il Matto incarna la condizione del visionario visitato dagli dei: è il sufi o il derviscio resi folli  dall’amore per Dio, è l’iniziato ai Misteri di Dioniso in preda alla manìa, o la Pizia di Apollo in preda al furore profetico.


Terminiamo tornando al tempo e ai bardi della luna crescente che sfidavano quelli della luna calante.  Possiamo applicare al tempo altri tipi di categorie. I greci distinguevano quattro tipologie di tempo: kronos, aion, kairos e suncronos. Fermiamoci alle prime due. Se il kronos è il tempo dell’accadere quotidiano, del “qui ed ora”, del prosaico avvicendarsi degli eventi della nostra vita, l’ “aion” è il tempo degli dei, il tempo in cui il divino, il luminoso, l’eterno fa irruzione nelle nostre vite. Sono pochi i momenti della vita che ognuno di noi può interamente ascrivere all’aion, quei pochi istanti eccezionali in cui veniamo messi a confronto con il mito o i miti che governano le nostre vite. (Esempio: vivono nell’aion i personaggi dei miti e anche, in epoca moderna, i personaggi dei fumetti). In viaggio com’è tra due città, tra due ordini costituiti a nessuno dei quali egli appartiene, il Matto è immerso nell’aion, nel tempo folle e sublime degli dei. Un tempo che è vicino al sogno e alla visionarietà. Da quel tempo può attingere infatti le immagini e le visioni di cui parleremo a proposito del Bagatto  e può avvalersi dell’ “immaginazione attiva”, tecnica alchemica per eccellenza.

 

Ma per attingere a quel pozzo pieno di tesori ognuno di noi deve, temporaneamente,  rinunciare alla sua parte razionale, al  suo essere immerso nel tempo ciclico dell’accadere, in definitiva a tutte le sue sicurezze.

 

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