OPINIONI SULLA NATURA DI DIO
 

Di AD. FranckIl scritto che segue è estratto da "La Kabbale ou la philosophie religieuse des Hébreux ", Edizioni Hachette 1843. Pagine 168 -195. 

I cabalisti usano due criteri per parlare di Dio che non fanno, in ogni caso, alcun torto all’unità del loro pensiero. Quando cercano di definirlo, in altre parole caratterizzano i suoi attributi, e vogliano, quindi, offrirci un’idea precisa della sua natura, il loro linguaggio è quello della metafisica; esso si articola con chiarezza su tali elementi ed il linguaggio d’esposizione è scorrevole. A volte, però, si limitano a rappresentare la Divinità come l’ente che bisogna rinunciare interamente a comprendere, estraneo ad ogni forma di cui la nostra immaginazione ama rivestirlo. In quest’ultimo caso, tutte le loro espressioni sono poetiche e figurate. Accade allora che, grazie proprio alla stessa immaginazione si oppongono all’immaginazione; in questo caso, tutti i loro sforzi tendono a distruggerne l’antropomorfismo, e riconoscendogli delle proporzioni gigantesche, costringono lo spirito stupito, che non trova così più nessun termine di paragone, ad appoggiarsi sull’idea dell’infinito. Il Libro del Mistero è interamente scritto in questo stile; purtroppo le allegorie che utilizza sono troppo spesso degli enigmi, per questo preferiamo, al fine di confermare ciò che abbiamo appena detto, citare un passo dell’Idra Rabba.

Schimon ben Jochai ha appena riunito i suoi discepoli. Ha detto loro che è giunto il tempo di lavorare per il Signore, in altre parole di fare conoscere il vero senso della legge, che i giorni dell’uomo sono contati, che gli operai sono poco numerosi, e la voce del creditore (la voce del Signore) è sempre più pressante. Ha fatto loro giurare di non profanare i misteri che andava a confidar loro, poi, sedendosi tra loro in un campo, all’ombra degli alberi, si mostrò pronto a parlare nel silenzio dei suoi discepoli. "Improvvisamente si udì una voce, ed i loro ginocchi tremarono per lo spavento. Di chi era questa voce? Era la voce dell’Assemblea Celeste che si riuniva per ascoltare. Rabbi Schimon, pieno di gioia pronunciò queste parole: Signore, non dirò, come uno dei tuoi profeti quando udì la voce, sono dominato dallo spavento. Non è più il tempo del timore, ma quello dell’amore, così com’è scritto: amerai l’eterno tuo Dio".

Dopo quest’introduzione che non difetta né di ostentazione ma neanche di qualità, segue una lunga descrizione, interamente allegorica, sulle dimensioni divine.

"È l’Antico degli Antichi, il mistero dei misteri, l’ignoto degli ignoti. Ha una forma che gli appartiene, poiché ci appare come l’Antico per eccellenza, come l’Antico degli Antichi, quanto di più sconosciuto tra gli ignoti. Ma, sotto questa forma che lo fa conoscere, resta tuttavia l’ignoto. Il suo vestito sembra bianco, ed il suo aspetto è splendente. É seduto su di un trono di baleni che sottomette alla sua volontà. La bianca luce della sua testa illumina quattrocentomila mondi. Quattrocentomila mondi nati da questa bianca luce sono l’eredità dei giusti nella vita a venire. Ogni giorno vede sorgere dal suo cervello tredicimila miriadi di mondi che ricevono da lui esistenza, e di cui sopporta da solo tutto il peso. Dalla sua testa scende una rugiada che ridesta i morti e li richiama ad una nuova vita. Per questo è scritto: la tua rugiada è una rugiada di luce, è lei il cibo dei santi dell’ordine più elevato. È la manna che si prepara ai giusti per la vita a venire. Scende nel campo dai frutti sacri. L’aspetto di questa rugiada è bianco come il diamante il cui colore presenta tutti i colori... La lunghezza di questo Viso, dalla cima della testa, è di trecentosessanta e dieci volte diecimila mondi. Si chiama il Lungo Viso; perché tale è il nome dell’Antico degli Antichi".

Mancheremmo tuttavia alla verità se lasciassimo supporre che il resto deve essere giudicato su questo esempio. La bizzarria, l’affettazione e l’abitudine così comune in Oriente, di abusare dell’allegoria fino alla sofisticheria, occupano più spazio della nobiltà e la grandezza. Così, questa testa abbagliante di luce per la quale si rappresenta l’eterno focolare dell’esistenza e della scienza, diviene, in qualche modo, l’argomento di uno studio anatomico; né la fronte, né la faccia, né gli occhi, né il cervello, né i capelli, né la barba, niente è dimenticato; tutto diventa un’opportunità per enunciare dei numeri e delle proporzioni che ricordano l’indeterminato. È evidentemente questo modo di presentare la divinità, che ha promosso, contro i cabalisti, l’accusa di antropomorfismo e quella di materialismo, avanzata da alcuni scrittori moderni. Ma né questa accusa, né la forma che ne è il pretesto, meritano il nostro tempo. Andiamo, invece, a tradurre alcuni passi in cui lo stesso argomento è trattato con una terminologia più interessante sia per la filosofia sia per la storia dell’intelligenza umana. Il primo che citeremo costituisce un tutt’uno abbastanza esteso. Con il pretesto di fare conoscere il vero significato di queste parole di Isaia: "A cosa potrete paragonarmi che mi sia uguale " ci spiega la generazione delle dieci Sephiroth, o principali attributi di Dio e la natura stessa della divinità, quando ancora si occultava nella sua sostanza.