Operatività e Degenerazione delle Strutture Tradizionali
di Filippo Goti


 Ovviamente ogni atteggiamento inadeguato da parte di un associato o iniziato, ad una realtà iniziatica tradizionale è in parte non secondaria frutto di una erronea valutazione di colui o coloro che lo hanno da un lato presentato, e dall'altro valutato. Colui che chiede di accedere ad un Ordine o una Fratellanza iniziatica dovrebbe essere sempre attentamente pesato sulla bilancia. Non trovo il riferimento alla psicostasia, trattandosi solo di un novizio e non di un'anima giunta a fine percorso nell'aldilà, eccessiva. Se ci interroghiamo attorno a chi, in una comunità iniziatica, può incarnare Horus e Anubis, accusatore e avvocato, innanzi al tribunale presieduto da Maat, allora mettiamo in dubbio, implicitamente, che vi sia una reale funzione formativa all'interno di tale struttura. E in tal caso il mondo profano è già dentro al tempio, e allora vecchi profani valutano solo un nuovo profano. Se non vi è responsabilità nel valutare e nel presentare, non vi è rischio neppure nell'accedere; ed essendo un'iniziazione reale corrispondente ad un potere reale, dobbiamo concludere o che le tre figure saranno "punite" da una potenza tutelare o eggregorica, oppure che non vi sarà punizione in quanto tutto oramai ridotto a semplice simulacro. Anche se in questo caso dobbiamo porre attenzione come i gusci vuoti di comunità tradizionali, sono anfratti dove si annidano le forze psichiche e vitali della controiniziazione.
Moltissime strutture tradizionali sono oggi ridotte a salotti di discussione, i riti degenerati in commedie, i simboli ridotti a simulacri, la docetica in un novero di insegnamenti morali, l'ideale iniziatico in idealismo illuminista, e il laborioso impegno ridotto a virulenza politica o affaristica. E' ovvio che ciò accada qualora, dopo una lenta ma inesorabile degenerazione, le porte del tempio sono aperte a chiunque possa sopportare il peso dell'obolo, a prescindere dalle qualità sostanziali richieste all'iniziato. Se l'accesso non è più limitato a chi desidera conoscere (dove per conoscenza intendiamo solamente la sintesi operativa, frutto di un'attitudine sperimentale), ma investe espressioni della profanità del bussante e assieme a colui che bussa. Dobbiamo interrogarci anche attorno alla reale natura del sorvegliante, dell'iniziatore e dell'esperto. Per giungere alla conclusione che anch'esso ricopre un ruolo, in virtù di un errore valutativo che ha investito coloro che lo hanno designato a tale ruolo e funzione; e allora dovrebbe essere tutta la struttura a sopportare il confronto con la piuma posta sull'altro piatto della bilancia.
Indubbiamente se è la componente egoica a prevalere nella comunità iniziatica, si giungerà a snaturare la stessa struttura. Dirottandola dai fondamenti e dalle prospettive spirituali che si era posta, verso attitudini profane. Qualora nella comunità gli iniziati virtuali (coloro che non possiedono i requisiti sostanziali), prendono numericamente il sopravvento, essi come un polo magnetico attireranno altri della stessa specie, piegando alle loro logiche dialettiche e profane la struttura stessa che li accoglie.
Se quanto esposto, frutto della frequentazione ed osservazione maturata in tali ambiti, è un rischio legato ad una fase preliminare, dobbiamo considerare che tale progressione degenerativa non si limita a tale fase. Oltre all'eclatanza di quanto osservato, vi è una più sottile azione che porta l'iniziato a credere di essere conforme nell'agire rispetto all'obiettivo che è posto, mentre in realtà esso ne è lontano. Accade ciò quando il rito non è compreso (accolto in se), in assenza della capacità di rendere cosa unica il rito con l'operatore: qualità che distingue l'adepto, da colui che adepto non è.
Fra le cause che portano a ciò dobbiamo annoverare l'incapacità dell'iniziato di "leggere" il rito nella sua trama occulta; e di avere con esso un rapporto esterno e quindi separativo. Il rito in se e per se deve essere vivificato dall'operatore, in quanto altri non è che un obbligatorio percorso che apparentemente investe la sfera del sensibile, ma realmente costituisce un camminamento spirituale. Dove l'azione è frutto di forza e volontà, l'accadimento che è posto in essere non investe la sfera del fenometico, in se e per se inesistente, ma l'oggettiva composizione dell'operatore. Conducendolo ad una sintesi esperienziale, che investe tutte le componenti di quel composito mosaico chiamato uomo. Ecco quindi la necessità di far vivere il rito sia nella sfera fisica, che in quella psicologica, che in quella intima. L'incapacità a cogliere tale risultato non deriva solamente da un'assenza delle qualità introspettive necessarie, o da debiti formativi nella specifica cultura sapienziale atta a creare simpatia fra lo strumento e il suo utilizzatore, ma anche dalla carenza o assenza metodologica. La colpa di tale mancanza deve essere quindi attribuita da colui che ha la responsabilità formativa nei confronti dell'iniziato. Nella mia ottica è l'eccellenza qualitativa, e non l'eccedenza quantitativa che deve essere ricercata in un consesso realmente iniziatico.
Altra causa è da ricercarsi in un'erronea inflessione dell'operatore verso gli strumenti a sua disposizione. I sadhaka o praticanti devono conoscere le qualità a loro richeste per compiere l'Opera che si propongono. Non è possibile mantenere un'inflessione devozionale rispetto agli strumenti operativi, fino quasi a ritenere che l'essenza stessa dell'iniziazione, o del percorso iniziatico risieda nella collezione di freddi strumenti, o compendi teoretici. Entrambi inutili se non applicati e compresi. Non possiamo esimerci dall'osservare come tanti fratelli e sorelle trovano immensa gratificazione nel "possedere" descrizione di rituali, e cadenze di impiego degli stessi; senza interrogarsi realmente sul come e sul perchè della loro messa in opera. Parlare del divino, non significa cogliere in noi il divino; e anche una scimmia sa emulare gesti umani per lei privi di significato, o travisandone il significato.
E' ben strano osservare come nella vita profana ognuno di noi prima di utilizzare un qualsiasi strumento, si predisponga a leggerne le istruzioni, o come prima di ingerire un medicinale, ne scruti la posologia, e solo successivamente proceda nell'intento. Tale lodevole attitudine sembra spesso mancare all'iniziato moderno, al ricercatore spirituale, che a causa di una fiducia che spesso tracima in fede, accetta di buon grado tutto quanto gli viene proposto. Più deleterio di ciò è solamente l'attitudine di colui che tende a considerare il rito e gli strumenti, come un retaggio di un lontano passato di barbaria e superstizione, ancora lontano dall'era dei Lumi. Vivendo tali espressioni come un dovuto dazio, per poi dare sfogo all'interno del consenso alle proprie velleità politiche, umanistiche, religiose, e comunque profane. Riconosciamo bene tale tipologia di avventori dai discorsi che pone in essere, vagheggiando opere di pulizia dell'aurea terreste, cura degli altri. Oppure in discussioni politiche attorno al ruolo della Chiesa, della dimensione laica dell'istituzione che li accoglie, o riproporre entusiasti ogni nuova tendenza o moda appresa. Tutto ciò denota la persistenza di un ego ipertrofico che trova ragione di essere nella relazione con gli altri, e nell'instaurare una dipendenza altrui nei propri confronti mascherata da servizio.
A molti sfugge come una struttura tradizionale è tale non solamente in virtù del governo del Magistero, della funzione docetica che si estrinseca nella custodia e trasmissione di riti, strumenti, rapporto iniziatico, e compendi teoretici, ma anche grazie ad altri due elementi costituenti.
Il primo è da ricercarsi nella prospettiva spirituale di ciò che è a disposizione dell'operatore. Necessariamente un'operatività, per essere reale e non un coacervo di tecniche, si deve fondare su di una prospettiva spirituale in grado di fornire una direzione a queste tecniche, e all'operatività tutta. Colui che ricerca strumenti, non avrà di che lamentarsi se invece che dedicare il proprio tempo all'iniziazione, lo mettesse a disposizione di una semplice ricerca in libreria, o tramite internet, o frequentando qualche corso infrasettimanale di yoga, reiki, danza sacra, ecc.. L'antica formazione ci ricorda come il giovane dotato nelle arti e mestieri fosse mandato a bottega. In modo da apprendere l'esistenza degli strumenti, il corretto uso degli stessi, la correlazione che sussiste fra essi e l'opera che si deve compiere. Mentre tale antica formazione non contempleva che il giovane fosse lasciato prono al proprio capriccio, in assenza di disciplina mentale e fisica.
La comprensione della prospettiva spirituale è utile per valutare la nostra adeguatezza rispetto alle finalità della struttura, la quale si esprime nel novero strumentale. In assenza di tale conformità, l'insieme eggregorico fatalmente espellerà o illuderà l'iniziato. Questa prospettiva assume veste di reintegrativa, trasmutativa, redentiva, salvifica, come summa e stigmate della gnosi particolare che costituisce, o costituirebbe quando ricordata oltre i paramenti e gli orpelli, il deposito docetico sapienziale dell'Ordine o della Fratellanza Iniziatica.
Comprendo bene che ciò è Reale (nel senso di non afferente ad una dimensione dialettica, ad una riduzione in mera teoretica), solamente qualora la struttura tutta sia espressione nel mondo sensibile di un collegamento con una radice metafisica. Allora l'istituzione è come il frutto di melagrana, la cui scorza coriacea ne preserva il succoso frutto, e i rubigni e vitrei semi. Ecco quindi la struttura nella sua veste di scrigno (scorza), che custodisce l'acqua sapienziale e vitale (la succosa polpa), ed unisce gli iniziati (i semi di color rosso e cristallini in simbolo di purezza), raccolti in ventricolari logge asimmetriche. Affinchè sussista una reale fratellanza ed eguaglianza in libertà di ricerca, ecco necessaria la funzione di custodia da parte di chi preposto al Magistero della struttura tradizionale. In modo tale che da un lato l'asimmetria delle logge, renda armonica e potente nella diversità la struttura stessa, e dall'altro preservi le stesse da estranea contaminazione, affinchè il rubigno vetro non diventi opaco.
E' nella pratica non ottusa, ma che tenga in debito conto e amalgama quanto sopra indicato, che trova ancora oggi espressione una struttura tradizionale; che sappia annoverare nel proprio consesso iniziatico quella eccellenza in progressione. Capace di tradurre una docetica operativa e sapienziale, in una Conoscenza Individuale; in una reale differenziazione fra un prima e un dopo. Momento separativo fra profano e sacro, in virtù dell'intervento del lampo illuminante, che fende le tenebre dell'ignoranza. Esiste una virtù e la Virtù. In quanto è necessario comprendere che senza la pratica (sadhana), la via esperienziale di sintesi, non sarà possibile il passaggio dalla virtù materiale (sattvaguna), alla virtù sprituale (vishuddhasattva). Virtù di cui ricordiamo l'etimologia in virtute (forza), ecco quindi leggere quanto sopra esposto in forza materiale (e quindi orizzontale) e forza spirituale (quindi trascendentale o verticale). Virtù che trova radice in Uomo (Vir), e ciò che è essenzialmente l'Uomo, depurato da ogni refluo. Nei fatti sia Virtude e Virgo (verginità: non profanazione o integrità) trovano radice in Vir; e su ciò alcune riflessione dovrebbero essere spese nel gabinetto di riflessione interiore. In assenza della pratica l'iniziato inconsapevolmente insisterà su di un piano di virtù materiale, in se e per se legato ad una comprensione moralistica o fiedistica del rituale, senza giammai accedere alla reale comprensione dello stesso, che lo avrebbe posto su di un piano di virtù spirituale.
Concludo ricordando come già nel recente passato pochi virtuosi che si sono riconosciuti diversi dagli altri presunti fratelli, hanno abbandonato l'istituzione che li accoglieva oramai decaduta a causa dell'assenza della pratica, e della riduzione della docetica stessa in mera teorizzazione dialettica. Virtuosi che hanno profuso le proprie energie, e le proprie qualità magiche, fornendo i depositi iniziatici a realtà come gli Eletti Cohen, il Martinismo, e i cenacoli Rosacroce. A monito di come la luce, anche se pur tenue, non può essere sopraffatta dalla più cupa tenebra; e come la tenebra è assenza di luce.

 



Articolo pubblicato nella rivista LexAurea29, si prega di contattare la redazione per ogni utilizzo.

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